Che il governo decida per un lockdown paragonabile a quello di marzo oppure no è ormai un tema irrilevante. Nonostante la fumosità congenita ai dati quando sono un tentativo di rappresentazione discreta di un continuum complesso come quello di una pandemia, è sufficientemente chiaro che le regole attuali porteranno, se la curva dei contagi non scende, e purtroppo non si vede per quale motivo potrebbe farlo, a un lockdown automatico.

A Milano, per fare un esempio parziale ma credo significativo, il numero di persone che sono positive o in quarantena per aver avuto contatti con un positivo è aumentato moltissimo. Non lo dicono solo i dati, è un tema di cui si parla per strada, nei bar, nei luoghi di lavoro, nelle chat, tra gli amici.

Una nuova classe di contagiati

L’aumento del numero dei tamponi ha moltiplicato la “presenza” del contagio, anche se, come sappiamo, è del tutto evidente che i contagiati a marzo-aprile fossero molti di più. Ma oggi, a screening sensibilmente aumentato (facciamo circa cinque volte i tamponi che facevamo durante il lockdown) un’intera classe di età che sembrava solo marginalmente toccata nella prima ondata è invece coinvolta: i 30-50enni rilevati come positivi sono molti di più.

E di conseguenza sono ancora di più le persone della stessa età che dovrebbero essere in quarantena e spesso non lo sono. Il tema del numero delle persone in quarantena è sottovalutato. Benché chiaramente difficilmente ottenibile ci darebbe un quadro dell’impatto reale della pandemia.

Abbiamo in Italia in questo momento più di centomila persone positive al Covid-19. Se avere avuto un contatto con uno di loro comporta la quarantena, è ragionevole pensare che un numero rilevante di italiani in età da lavoro dovrebbe essere già chiusa in casa. Ma di questo non si sa nulla.

Questo ragionamento diventa ancora più evidente nelle due regioni messe peggio: Lombardia e Campania. E ancor di più in una città come Milano, con i numeri che diventano ogni giorno più impressionanti. Ma così non sembra essere.

Questo è il fatto più preoccupante; se da un lato è difficile davvero incontrare qualcuno senza mascherina, dall’altro è evidente che molti non hanno ancora capito la ratio dei provvedimenti e delle disposizioni più complesse.

La mascherina non basta

Si sentono discorsi che palesano una mancanza di comprensione preoccupante (contagiati, test, regole alle quali attenersi). L’unica cosa che sembra chiara e condivisa è appunto la mascherina, fatto non sorprendente vista la facilità e la “visibilità” del suo uso.

Più difficile spiegare che se si è entrati in contatto con un positivo la mascherina non basta. È necessario l’isolamento. Da qui passa essenzialmente il nostro futuro prossimo.

La situazione è chiara. Non ci sarà un lockdown se saremo tutti così ligi alle regole da evitarlo con le nostre decisioni quotidiane. Ma sarebbe necessario uno sforzo di comunicazione in più per far comprendere meglio e in maniera più incisiva i motivi per i quali la mascherina non basta.

Quante persone pensano ancora che il giorno dopo aver pranzato con una persona positiva basti fare un test sierologico per essere liberi? Il tema del periodo di incubazione è uno dei meno introiettati dai cittadini; non sembra si sia compreso che il test è una fotografia e non un video. Rappresenta la situazione nel momento x e non, ovviamente nel momento x+1 – ovvero se un test oggi mi da negativo ma ieri ho pranzato con un positivo, dovrei stare a casa, quattordici o dieci giorni, lo vedremo, ma fa poca differenza.

Di certo non posso essere sicuro di non diventare positivo domani. E perciò dovrei comportarmi di conseguenza: come se fossi positivo. Dunque, rispetto a marzo-aprile, quando il lockdown impediva il movimento a tutti, quindi anche a tutti quelli che erano inconsapevolmente contagiosi, oggi il numero di persone positive o potenzialmente positive che si muovono liberamente è aumentato, e non di poco.

E questo nonostante il fatto che, in tutta probabilità, visto l’enorme divario tra il numero di test che si facevano nel periodo del lockdown e quelli che si fanno oggi, i positivi fossero molti di più a marzo-aprile. Ma stavano a casa, come tutti gli altri. Oggi no.

Non è dunque difficile immaginare che questa mancanza di consapevolezza, unita a quella che sembra essere una strategia del governo, possa portare ad un lockdown “automatico”; gli uffici si svuoteranno per l’aumentare dei positivi; i bar non avranno il problema dell’orario di chiusura perché ci sarà un cliente o un dipendente positivo, le scuole già subiscono gli effetti di un domino di chiusure a settimane alterne di classi, e così le attività di gruppo per bambini e adolescenti, come per esempio lo sport.

Salvaguardare le scuole

Dunque chiunque può fare qualcosa, oggi, deve farlo, e subito. Lo smart working non dovrebbe essere un rimedio a cose fatte, ma uno strumento di prevenzione. Chi ha potere e possibilità in questo senso, nei settori produttivi, istituzionali, nel terziario, nei servizi non essenziali dovrebbe farlo.

Per salvaguardare soprattutto le scuole, intorno alle quali dovremmo costruire una bolla protettiva. Tutto ciò va fatto adesso. Continuare a chiedersi se ci sarà o meno un lockdown è inutile; ci sarà, sarà a macchia di leopardo, e senza bisogno di un decreto. Sarà la realtà a imporcelo, se non iniziamo a comportarci come se ci fosse già.

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