Dopo il siluramento di Gennaro Vecchione, il direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza sostituito qualche giorno fa da Elisabetta Belloni, il blitz con cui il governo ha deciso di ridisegnare i nostri servizi di sicurezza non è ancora finito. Il sogno di molti, a palazzo Chigi, è che Marco Mancini, il caporeparto del Dis finito nella bufera per un anomalo incontro con Matteo Renzi in un autogrill (registrato di nascosto da una passante e finito su Report) accetti i consigli e vada in pensione il più presto possibile. Possibilmente già entro l’estate.

Risulta a Domani che la spia sia in ferie da due giorni, e che al dipartimento di piazza Dante non è prevista ancora una data certa di rientro. Ieri sera fonti dell’intelligence davano per presa la decisione di Mancini di presentare entro luglio un’istanza per il pensionamento anticipato, ma colleghi vicino all’agente originario di Castel San Pietro terme, a due passi da Bologna, spiegano che nessuna determinazione è stata ancora presa dalla spia, che «la domanda è un atto volontario» e che nessuno può imporre pensionamenti d’ufficio a chicchessia prima dei 65 anni di età.

Braccio di ferro

Al di là delle schermaglie e delle puntualizzazioni, è un fatto che Mario Draghi, ma soprattutto il sottosegretario con delega ai servizi Franco Gabrielli e la stessa Belloni, si augurano che l’ingombrante caporeparto scelga di uscire di scena in modo onorevole, ma in tempi rapidi. Anche perché, se è vero che il riposo anticipato è scelta libera dei singoli agenti, è fatto certo che il regolamento dei servizi segreti, Dis compreso, permette ai direttori di scegliersi ogni collaboratore: nel caso venga meno la fiducia, gli agenti possono essere ricollocati in un amen nel corpo dal quale provengono. Nel caso di Mancini si tratta dell’arma dei carabinieri, che lasciò nel 1985 con il grado di brigadiere per entrare nel controspionaggio del Sismi. «Difficile che Marco riesca a restare al Dis», spiegano qualificate fonti delle tre agenzie, che segnalano come l’allontanamento della spia segnerebbe definitivamente la fine di un’epoca, quella di Nicolò Pollari e dell’influenza sui servizi di Gianni Letta.

Dovesse andare in pensione o essere ricollocato nei carabinieri, è un fatto che Mancini rischia di pagare quello che i suoi nemici considerano, per usare un eufemismo, un «eccesso di dinamismo» istituzionale. Arrestato e condannato in appello a nove anni di carcere per il rapimento dell’imam Abu Omar, l’agente segreto nel 2014 ha visto la sua pena cancellata dalla Cassazione, che ha sancì che, grazie al segreto di stato da poco riconfermato per altri tre lustri, l’azione penale contro di lui (e contro il suo capo Pollari) non poteva essere perseguita.

Incontri e politici

Formalmente riabilitato, la spia è stata promossa ad Dis come caporeparto, ma da anni ambiva a tornare sul campo. Mancini ha puntato inizialmente a rientrare nei ranghi dell’agenzia esterna, l’Aise, che considera la sua vera casa. Poi ha lavorato per ottenere una promozione come vicedirettore del Dis. Una poltrona, dice qualche ben informato, che gli sarebbe stata prospettata da Vecchione e dallo stesso Conte. Proprio l’avanzamento di carriera sarebbe stato al centro, insieme ad altri temi, di alcuni incontri con politici di primo piano: da quello con Renzi, avuto a poche settimane di distanza dall’ultimo giro di nomine, a quelli con Matteo Salvini, che ha ammesso di avere chiacchierato con l’agente più volte. Fino al rendez-vous con il ministro Luigi Di Maio, che lo incontrò – ha scoperto Domani – alla Farnesina a gennaio 2020, introdotto dal pm antimafia Nicola Gratteri, amico di Mancini da lustri.

L’attivismo del caporeparto non è stato però ben visto dai nuovi decisori. Persino Conte, in una difficile telefonata con il nuovo premier, si sarebbe lamentato del fatto che l’unico a pagare per il pasticcio dell’autogrill sarebbe stato il prefetto Vecchione, a suo dire del tutto ignaro delle mosse del sottoposto. Il governo oggi vuole – Gabrielli in primis – bonificare dai nostri servizi di sicurezza ogni protagonismo che possa creare tensioni interne al reparto, o nuocere al lavoro degli agenti sul campo. Non è un caso che palazzo Chigi abbia formulato una delibera, recepita da pochi giorni, che obbliga i dipendenti che desiderano incontrare politici o magistrati a presentare esplicita autorizzazione ai loro vertici.

E se Mancini dovesse impuntarsi e tentare di rimanere al suo posto in ogni modo? In pochi scommettono che riuscirebbe a vincere l’ennesima battaglia: i suoi antichi referenti nelle istituzioni non sono più influenti come un tempo, gli amici che aveva nei Cinque stelle hanno perso i loro privilegi, e Draghi e i suoi colonnelli (come hanno dimostrato anche nelle ultime scelte nelle partecipate di Stato) non si lasciano facilmente impressionare da nessuno. Nemmeno da Mancini.

 

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