Il tema dell’impiego di un contingente italiano divide il governo. Salvini su von der Leyen: «Se l’esercito lo guida lei dura 20 minuti»
Venti minuti. È il tempo massimo che Matteo Salvini dà a Ursula von der Leyen come capo di un possibile esercito comune europeo. «Poi si arrende», il commento ironico, sprezzante, sicuramente esplicito. «Quindi sono assolutamente contrario a una ipotesi di questo tipo», ha detto il vicepremier e ministro dei Trasporti.
Il tema di un esercito comune, così come quello del potenziale invio dei soldati europei in Ucraina, ha tenuto banco. E i tre partiti di maggioranza hanno fatto emergere posizioni non opposte, ma con rilievi profondamente diversi.
Divisioni in maggioranza
Forza Italia è la più possibilista. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha aperto a un futuro utilizzo di militari italiani, ma esclusivamente all’interno di un’operazione delle Nazioni Unite. L’impegno di Nato o dell’Unione europea non basterebbe. Il rischio, secondo lui, è che i soli soldati occidentali possano essere visti come nemici dalla Russia.
La Lega di Salvini è invece, sì, in trincea, ma per combattere contro l’invio di truppe e la creazione di un esercito comune. «Parlare oggi di mandare soldati italiani in terra di guerra non ha senso, non mi esercito neanche a dire chi e come. Prima Putin e Zelensky devono deporre le armi e poi ragioneremo di tutto», ha incalzato il vicepremier. Il riferimento alle proposte di Keir Starmer e soprattutto di Emmanuel Macron, di spedire 30mila peacekeeper in Ucraina dopo un cessate il fuoco, è evidente. I leghisti a seguire gli inglesi o tantomeno i francesi non ci stanno.
Da Fratelli d’Italia, invece, era stato il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari a criticare già martedì l’ipotesi di un dispiegamento europeo. Diverso sarebbe con l’Onu, hanno fatto trapelare da Palazzo Chigi.
Ma ieri è stato il turno di Guido Crosetto che ha rincarato la dose. Da ministro della Difesa, ha sottolineato come al momento non sia utile «impegnare il dibattito politico interno» su una questione simile. «Una difesa europea può esistere solo come somma delle difese nazionali», ha scritto in un lungo post social. Poi Crosetto ha attaccato a testa bassa: «I contingenti non si inviano come si invia un fax e per poter fare un comunicato stampa. Soprattutto quelli delle altre nazioni». Il suo dito è puntato contro Macron e Starmer, definiti «presidente di una nazione comunitaria e quello di una nazione extracomunitaria».
L’irritazione è palese. «Se si parla a nome dell’Europa bisognerebbe avere la creanza di confrontarsi con le altre nazioni e ciò non è accaduto per gli aspetti militari della questione. Che mi risulta essere principalmente militare», ha continuato, prima di evidenziare la necessità di un iter parlamentare per materie simili. Uno sfogo duro, a dimostrazione di come al governo non sia piaciuto lo scatto in avanti britannico e transalpino.
Linea inespressa di Meloni
In tutto questo, chi non ha ancora espresso pubblicamente una piena posizione è Giorgia Meloni. La premier è costretta a rimanere in equilibrio tra l’Europa e la Casa Bianca. Prova a giocare le sue carte per essere il pontiere con Donald Trump. Solo che al vertice di domenica a Londra, dove si troveranno i maggiori leader europei con Zelensky per parlare di sicurezza, dovrà portare una linea sola. Quella del governo italiano. Che magari andrà spiegata, perlomeno alla sua stessa maggioranza.
Nelle dichiarazioni congiunte a margine dell’incontro con il primo ministro svedese Ulf Kristersson, si è limitata a commentare il dossier ucraino. Per Meloni servono «sforzi per gettare le basi per una pace giusta e duratura in Ucraina». Per arrivarci dovranno essere date a Kiev «adeguate garanzie di sicurezza per essere certi che non accada di nuovo». La postura pro-ucraina, quindi, rimane.
Garanzie, però, che secondo Meloni «devono essere realizzate nel contesto dell’Alleanza atlantica». «Le altre soluzioni mi sembrano più complesse e meno efficaci», ha dichiarato la premier. Niente truppe europee da sole, quindi. Serve più Nato, parrebbe di capire.
Linea che però sconfessa leggermente le precedenti parole del ministro Tajani. Se non fosse un argomento su cui anche nel centrosinistra si litiga, le opposizioni avrebbero potuto sfruttarlo per mettere in difficoltà il governo.
Caso di Starlink e ddl Spazio
Nella dichiarazione congiunta con il premier svedese, Meloni ha aperto alla possibilità di cooperazione con Stoccolma su spazio e difesa. Proprio il settore spaziale è al centro di un piccolo caso. Il cosiddetto referente italiano di Elon Musk, Andrea Stroppa, nel pomeriggio ha commentato la notizia di un presunto asse tra Pd e FdI sul ddl Spazio, in discussione in Parlamento.
In realtà tra gli emendamenti delle opposizioni all’articolo 25 del testo, per evitare una norma troppo a misura di Starlink, ne è stato approvato solo uno, a firma di Andrea Casu, deputato Pd. La modifica prevede che la riserva di capacità trasmissiva nazionale attraverso comunicazioni satellitari, che Roma vuole costruire, dovrà «tutelare la sicurezza nazionale» e «assicurare un adeguato ritorno industriale per il sistema Paese». Nulla di sconvolgente. Ma inaccettabile, a quanto pare, per Stroppa.
In un post, infatti, ha attaccato: «Intesa Pd-FdI. Bene, si vuole far passare Starlink e SpaceX (che, tra l’altro, ha lanciato missioni per l’Italia accelerando le tempistiche per dare una mano) per i cattivi. Agli amici di FdI: evitate di chiamarci per conferenze o altro».
Un avvertimento a cui i meloniani hanno subito cercato di riparare. Bisognerà aspettare le prossime conferenze, oppure vedere se gli accordi con la società di Musk andranno in porto, per capire se sono riusciti nel loro intento.
© Riproduzione riservata