Nella storia di un Paese si apre ogni tanto, in un secolo, la finestra verso un futuro migliore. La manchi e resti al palo, con risentimento. La cogli e improvvisamente il difficile diventa possibile, con entusiasmo contagioso. Il Piano nazionale di Ripresa e Resilienza (il Piano) è una di queste finestre, che va ben oltre l’uso dei 190 e passa miliardi di fondi europei: riguarda la scelta di dove l’Italia vuole andare.

Non possiamo mancare questa occasione. Eppure lo faremo, se il paese tutto non sarà coinvolto nel concepire e sentire come suoi alcuni grandi obiettivi strategici e nel fissare i risultati a cui mirare e se all’attuazione non concorreranno pubblici amministratori scossi da una chiamata alla mobilitazione e rinvigoriti da nuove e più giovani immissioni.

Non è questa la strada, non sono questi i segnali dati sinora dal governo. Ora che in modo frammentario le sue intenzioni iniziano a circolare è importante che la rotta cambi.

Gli obiettivi incerti

In merito agli obiettivi strategici non sarebbe serio commentare i testi appena trapelati in occasione del Consiglio dei ministri. Basti dire che a un primo esame si colgono in alcuni casi una diagnosi e gli obiettivi a cui mirare (è il caso della transizione digitale della PA), in altri casi ciò manca e appaiono decisamente incongrue le risorse dedicate (scuola e casa, ad esempio) o l’intervento appare frammentato, figlio della somma di progetti eterogenei, pensati come monadi che finirebbero per incrociarsi nei territori, senza sinergie e senza gambe.

Ma soprattutto sembra ancora mancare la “logica dei risultati attesi”, l’indicazione dei miglioramenti misurabili del benessere collettivo a cui i blocchi di progetti mirano: di quanto si intende ridurre la povertà educativa nelle sue diverse dimensioni? Entro quando? E così per ogni dimensione. Né più né meno di quanto chiede l’Europa.

Su questi risultati attesi, quantificati, si deve aprire quel confronto che imprese e sindacati stanno chiedendo, su cui i sindaci d’Italia giocheranno un ruolo non sostituibile, e che l’intero sistema delle organizzazioni di cittadinanza è pronto ad accompagnare.

Ma c’è di più. Solo partendo da questi risultati attesi diventa possibile identificare le filiere amministrative interessate dall’attuazione: la mappa delle amministrazioni competenti (dai ministeri ai comuni), i “soggetti attuatori”, le caratteristiche delle persone necessarie, che già ci sono o che vanno reclutate in fretta. L’assenza di questo passaggio spiega forse il perché dell’architettura della governance che il governo vorrebbe dare al Piano: una sorta di “micro-amministrazione parallela”, quasi un gabinetto di guerra, con i suoi Ministri (i “sei” super-manager) e una sua struttura di cui questi possano servirsi (lo staff di specialisti).  

Troppo poco e troppo, rispetto a ciò che serve.

Troppo poco, se si pensa così di far funzionare una poderosa macchina amministrativa, da Roma fino giù ai territori, che deve realizzare non poche grandi opere pubbliche, ma la messa a terra di interventi strategici su scuole, città, servizi sociali, piccole e medie imprese, università, abitazioni: una scossa elettrica a tutta la filiera pubblica, ben più di ciò che leggiamo.

Troppo, se si pensa di irrobustire il Referente unico nazionale che deve interagire con Bruxelles, dotandolo del potere politico e delle competenze tecniche per monitorare ogni giorno cento punti del sistema, individuare blocchi, segnalare rimedi. Lo si faccia, è indispensabile, ma senza pretendere o dare l’impressione di sostituirsi alle amministrazioni competenti.

Cambiare le teste, non moltiplicarle

Se i “generali di corpo d’armata” che ne sono a capo non convincono, allora si sostituiscano o si dia vita a strutture snelle e ad hoc dentro i ministeri e le si affidino a bravi manager, selezionati con un processo di nomina attento alla parità di genere, trasparente, sottratto a logiche di spartizione per fedeltà politica, anziché portare le funzioni a ridosso del referente, con la conseguente paralisi di tutta la macchina pubblica.

Tentare di aggirare le amministrazioni pubbliche invece che rafforzarle, agire in deroga con poteri sostitutivi invece che velocizzare i procedimenti, rinunciare alla possibilità di rinnovare le organizzazioni assumendo giovani con nuovi criteri: non sarebbe la prima volta. Ma farlo ora vorrebbe dire condannare il Piano a un naufragio.

Non si dica che non ci sono i tempi per farlo. Non si usi anche stavolta questo alibi. Sulla base delle proposte che abbiamo presentato e che raccolgono l’appoggio di tante personalità del Paese (“Per una pubblica amministrazione rigenerata”), si può disegnare un assetto organizzativo efficace, fatto di quattro componenti e un organo di monitoraggio partenariale.

Prima di tutto vengono le amministrazioni competenti per materia negli obiettivi strategici del piano. Queste amministrazioni, centrali e territoriali, vanno identificate e rafforzate, da un lato reclutando migliaia di nuovi funzionari (numero, competenze disciplinari e organizzative di queste assunzioni saranno determinati dagli obiettivi stessi), con un bando da emettere entro metà gennaio con l’obiettivo di una loro assunzione operativa entro fine giugno: possibile, se diventa priorità nazionale, attorno a cui mobilitare commissioni composte dalle migliori teste del Paese; dall’altro, va contestualmente avviata, in ogni amministrazione individuata, un’azione di formazione al nuovo obiettivo e a svolgere un ruolo di inserimento/mentoring dei nuovi assunti.

Poi vengono i “generali di corpo d’armata”, nello Stato e nelle Regioni: chiamiamoli, come fa il governo, “soggetti responsabili”. In ogni Amministrazione centrale coinvolta, se utile potrà essere costituita una Direzione Generale per l’obiettivo, in cui nominare un nuovo dirigente generale interno o esterno con adeguate risorse. Regioni e città metropolitane nomineranno allo stesso modo dirigenti generali come responsabili unici.

Siano questi i manager incaricati di approvare e modificare i cronoprogrammi su spesa, realizzazioni e risultati, di monitorare l’attuazione, di individuare ritardi e fornire soluzioni, in una costante interlocuzione con il vertice del Piano. Ogni potere sostitutivo che dovesse rivelarsi necessario andrebbe attribuito a tali figure.

Al vertice sta il Referente unico nazionale che governa i rapporti con la Commissione Europea, approva le modifiche proposte dai soggetti responsabili e ha poteri di intervento su di essi, assicura trasparenza costante sui dati e un flusso di informazioni in formato open sullo stato di attuazione, relaziona al Parlamento. Per fare questo, oltre ad avvalersi delle strutture di monitoraggio del ministero dell’Economia, si avvale anche di uno staff tecnico (poche decine di persone) assunto anch’esso a termine sino al completamento del Piano.

Evitare la “burocrazia difensiva”

Il quarto livello, come nello schema del governo, è ovviamente quello della responsabilità politica. Il Referente unico riferisce e risponde ad un Comitato presieduto dal presidente del Consiglio dei ministri di cui fanno parte i principali ministri di riferimento del Piano, dialogando con la Conferenza Stato Regioni e la Conferenza Unificata.

A questi quattro livelli si aggiunge un Organo di monitoraggio e di sorveglianza delle parti economiche e sociali e della società civile, con funzioni simili a quelle che ha il partenariato nella gestione dei Fondi comunitari ordinari, non con improbabili ruoli di “consulenza”.

Ovviamente anche questa governance del Piano, che proponiamo come Forum Disuguaglianze Diversità, Movimenta e Forum PA, è un’architettura migliorabile.

È però necessario che alcuni punti fondamentali restino fermi. Il primo e più importante è dato dalla certezza – sperimentata negli anni sul campo – che la “burocrazia difensiva” non si combatte esautorando le amministrazioni con task force, commissari, superpoteri e norme in deroga, ma rinnovandola e restituendole ruolo, strumenti e responsabilità. In modo da assicurare che ogni soluzione di breve termine non sia estemporanea ma rappresenti anche il primo passo di un rinnovamento strutturale nel tempo.

Ci serve un’altra pubblica amministrazione: è questa la priorità assoluta e la sfida più urgente, l’unica che può consentirci di vincere tutte le altre.

È adesso il momento di pretenderla, è adesso il momento di costruirla.

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