«Serve una personalità di alto profilo. Il nome del presidente o della presidente deve essere condiviso da tutti», visto che «la convergenza è obbligatoria, tutti dobbiamo metterci lo spirito giusto, in una dialettica di rispetto degli avversari».

Enrico Letta commenta la conclusione del vertice del centrodestra dall’esterno del circolo di viale Mazzini, ex storica sezione del Pd romano, quella a cui in un’altra era politica erano iscritti molti giornalisti Rai. Quel circolo da ieri porta il nome di David Maria Sassoli.

È il giorno dei funerali di stato e il segretario, che alla chiesa di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri è rimasto defilato, risponde misurando i toni alla richiesta ufficiale di tutto il centrodestra a Berlusconi di «sciogliere la riserva», insomma di decidere se correre o meno. Ma quello di Letta è un no senza subordinate: «Cerchiamo di andare oltre le bandiere, oltre gli stendardi, facciamo scelte in cui nessuno si senta perdente o vincente».

Dal Nazareno filtra «delusione e preoccupazione» per l’esito del vertice di Villa Grande. Delusione perché l’incontro «poteva essere l’occasione per togliere dal tavolo la candidatura di Berlusconi, che impedisce e complica il dialogo». Preoccupazione perché «ci si intestardisce una su una opzione divisiva, che di fatto ritarda o complica la ricerca di un risultato».

Eppure si indovina un filo, esilissimo, di ottimismo intorno alla parola «riserva». Il centrodestra ha fatto un gesto formale di sottomissione al proprio vecchio leader; che ora, gratificato, potrebbe fare il beau geste di convogliare tutti i voti dello schieramento su un “piano B”, come chiedono i leghisti. Ma il piano B è una personalità del centrodestra potabile anche per i giallorossi; oppure è Draghi?

La grande divergenza

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E qui le risposte, nel Pd, divergono. L’interpretazione dei segni è ormai diventata una divinazione da aruspici più che un esercizio di analisi politica. Per esempio vengono date interpretazioni opposte a una notizia filtrata ieri: una visita a palazzo Chigi di Gianni Letta ad Antonio Funiciello, capo di gabinetto del presidente del Consiglio.

L’ex braccio destro dell’ex Cavaliere viene descritto in queste ore come impegnato nel tentativo di persuadere il suo amico di una vita a rinunciare alla corsa e a fare il kingmaker di una candidatura che abbia i voti per andare a segno. Già un anno fa Letta andò in Francia a trovare Berlusconi per convincerlo a dare una mano al governo Conte due morente, lasciando libero qualcuno dei peones azzurri di votare la fiducia. Ma non ci riuscì.

In questi ultimi due giorni per il segretario del Pd sono stati segnati dal lutto per Sassoli. Tutti i circoli del partito, in tutta Italia, hanno esposto bandiere a mezz’asta. E in segno di rispetto è stata rimandata a oggi la riunione congiunta della direzione con i gruppi parlamentari. Si svolgerà oggi alle 10 in streaming, una scelta “di trasparenza” che riesuma una pratica dell’epoca veltroniana, poi molto contestata dal gruppo dirigente perché costretto a una discussione meno franca e più mediatica; e per questo via via abbandonata.

Letta l’ha rispolverata perché non ha paura delle diverse posizioni che ci saranno in campo. «Siamo un grande partito», viene spiegato a chi gli chiede il motivo dell’operazione trasparenza, «discutiamo, ci confrontiamo, ma non siamo dilaniati per ragioni oscure come altri, anzi siamo anche orgogliosi di far ascoltare il livello di cultura politica che sappiamo esprimere».

Le differenze sono già annunciate: Matteo Orfini presenterà la proposta, già anticipata in una riunione della corrente dei giovani turchi, di lavorare su un bis di Sergio Mattarella. Una proposta che, è la convinzione di chi la sostiene, potrebbe essere anche una condizione indispensabile per la permanenza di Draghi a Palazzo Chigi.

Ma c’è ancora tempo: per il momento Orfini è d’accordo con Letta sull’ipotesi di uscire dall’aula se la destra dovesse proporre l’ex Cavaliere: «La candidatura di Berlusconi è una provocazione, e allora si reagisce con una provocazione». Un gesto che, se condiviso dai Cinque stelle, avrebbe anche il vantaggio di far contare il centrodestra, far risaltare le eventuali defezioni o comunque la mancanza di voti in vista delle votazioni a maggioranza.

Da Matteo Ricci dovrebbe invece arrivare la proposta di lavorare sull’ipotesi di Draghi al Colle. E non è un mistero che è l’opzione che Letta non ha mai escluso, a differenza della stragrande maggioranza del suo partito.

Draghi in ribasso

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Ma tanto il nome non è l’oggetto della delega che oggi il Pd – direzione e gruppi parlamentari – darà al segretario e alle presidenti dei senatori Simona Malpezzi e dei deputati Debora Serracchiani. Anzi, la delega sarà quasi in bianco: il mandato sarà a lavorare su un nome autorevole, europeista, e a un accordo con la maggioranza di governo su un patto di legislatura. Ques’ultimo è un tema delicato: se alla fine il centrodestra dovesse accettare di eleggere Draghi, ci sarà un governo nuovo. Ma l’opzione Draghi non è di quelle che ieri erano date in rialzo.

Letta in questi giorni si è confrontato con tutti i leader delle forze politiche. Tutti, viene spiegato, sono stati visti o sentiti per telefono. Unica eccezione, Matteo Renzi, con cui ieri nella basilica di Santa Maria degli Angeli qualche cronista lo ha visto scambiare quelle che dall’esterno sono sembrate parole di cordialità.

Dal Nazareno viene assicurato che i due si vedranno appena si entrerà nel vivo delle trattative sul Quirinale; stavolta potrebbero persino lavorare insieme al buon esito dell’elezione.

Atmosfere più distese con Giuseppe Conte. Letta e lui si sono visti a quattr’occhi. Ma il confronto con il presidente del M5s al momento non è risolutivo: il movimento è in grande tormento interno e non è chiaro se alla fine riuscirà a rispettare il patto stretto con gli altri due alleati giallorossi.

L’unica certezza è il minimo comune multiplo con il Pd, e cioè non voteranno Berlusconi. Ieri l’ex premier lo ha ribadito: «Silvio Berlusconi alla presidenza della Repubblica è per noi un’opzione irricevibile e improponibile». Su questo, ma solo su questo, i grillini sono tutti d’accordo. Almeno a parole.

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