Il leghista ha apprezzato la remissività di Meloni in aula e rivendicato che «il futuro non passa per nuove armi». Ma sulla premier avrebbe pesato di più il no di Giorgetti
Nell’enfasi delle comunicazioni pre Consiglio Ue, la Lega è uscita con la soddisfazione – almeno momentanea – di aver vinto su alcuni punti fermi. Matteo Salvini, che era a Bruxelles e ha seguito l’aula da lontano, ha avuto gioco facile nel rivendicare il successo coi suoi.
Dalla remissività della premier davanti all’avvertimento del capogruppo Riccardo Molinari che non avrebbe avuto un mandato per il riarmo, fino alle critiche al piano von der Leyen sulla linea di quelle leghiste. Anche la polemica montata ad arte con le opposizioni sul manifesto di Ventotene è piaciuta: alla lunga, la convinzione dentro la Lega è che la sparata rischi di nuocere a chi, dentro FdI, punta a un’asse forte con gli europeisti del Ppe.
Anche per questo in giornata Salvini, tra l’inaugurazione del nuovo ponte dell’industria a Roma e una riunione sui balneari, ha detto di avere «totale fiducia in Giorgia Meloni» per poi però tirare dritto: «Spero che l'Italia possa scegliere di usare dei soldi per mettere in sicurezza il Paese, il cui futuro non passa attraverso missili e carrarmati. Investire i soldi in armi non penso sia il bene per il nostro paese». Parole utili anche in vista del congresso leghista del 3 e 4 aprile a cui il segretario guarda con attenzione. Con buona pace della premier, che in aula aveva bollato come populista l’idea che i potenziali fondi a debito per la difesa possano essere usati in altro.
Le strategie
Eppure i due si sono parlati ed entrambi hanno ostentato tranquillità. Salvini perché sa di aver costretto Meloni a scegliere la tranquillità interna della sua maggioranza, anche a costo di fare qualche passo indietro nel rapporto con Ursula von der Leyen. Meloni, invece, ha ripetuto ai suoi una parola: «Pragmatismo».
Ovvero: inutile creare tensioni su un piano che non verrà realizzato a breve (e che non è stato oggetto del Consiglio Ue). La baldanza di Salvini, però, si è riversata su Antonio Tajani, che con Forza Italia ha in ogni sede ribadito il suo sì al Piano ReArm Eu, in linea con la sua famiglia europea. «No all’esercito europeo. C’è la Nato, investiamo per far parte dell’alleanza difensiva e in diplomazia», ha detto rispondendo a distanza al ministro degli Esteri, in una competizione ormai aperta tra i due alleati.
Fonti interne, tuttavia, fanno capire che – più che Salvini – Meloni abbia preso sul serio l’improvviso e veemente no al piano europeo del ministro all’Economia leghista, Giancarlo Giorgetti. Tra la premier e il suo ministro i rapporti sono buoni e negli ultimi mesi il titolare di via XX Settembre era sembrato quasi più un tecnico che un organico di via Bellerio. Per questo le sue parole – «che improvvisamente si scopra che si devono spendere valangate di miliardi per la difesa facendo debito è singolare» – hanno avuto un peso.
E in particolare una parola: debito. Giorgetti, infatti, si è costruito la nomea di Cerbero dei conti, con l’obiettivo di tenere sotto controllo la spesa pubblica, e considera inimmaginabile che tutte le sue proiezioni vengano sballate dalla stessa Europa che ha imposto all’Italia una serie di limiti alle spese. Un elemento, questo, che ha avuto il suo peso anche nell’elaborare la strategia di palazzo Chigi.
Dopo i fulmini in aula, a Bruxelles – dove Altiero Spinelli è considerato un padre dell’Europa – Meloni ha cercato di ricomporsi. La presidenza del Consiglio ha voluto smontare le ricostruzioni che hanno raccontato di una premier festante che avrebbe parlato di «mossa geniale» dal punto di vista «mediatico» e di opposizione «caduta in trappola con reazioni isteriche». «Fatti mai accaduti», è stata la secca smentita di palazzo Chigi. Anche se la gravità della polemica sollevata non cambia.
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