La storia di Giuseppe Conte con l’Afghanistan è praticamente una pagina bianca. Le parole che ha pronunciato sulla complicata evacuazione da Kabul e la nuova linea che l’occidente dovrebbe tenere nei confronti dei Talebani sono le prime che ha dedicato all’argomento, non solo da presidente del Movimento, ma anche da presidente del Consiglio in due governi.

Conte ha interrotto il suo silenzio sulla questione a 36 ore dalla caduta di Kabul, un basso profilo che anche internamente non hanno gradito in molti. La presa di posizione è arrivata durante un evento organizzato da Il Vescovado, un quotidiano online della Costa d’Amalfi, a Ravello: si trattava della presentazione del libro di Enrico Passaro, responsabile del Cerimoniale della presidenza del Consiglio. Tra gli ospiti c’erano anche il sociologo Domenico De Masi e padre Enzo Fortunato.

La posizione

Quando è arrivata l’attesa domanda sull’Afghanistan, Conte ha chiesto «priorità per i corridoi umanitari» e ha annunciato di voler destinare i fondi delle restituzioni dei parlamentari del Movimento all’accoglienza. Oltre alla questione del salvataggio di chi sta cercando di lasciare il paese, Conte ha detto di voler utilizzare «le armi della diplomazia, del sostegno economico e finanziario e dobbiamo coltivare un serrato dialogo col nuovo regime, che appare, quantomeno a parole, da alcuni segnali che vanno tutti compresi, su un atteggiamento abbastanza distensivo». 

Secondo l’avvocato del popolo inoltre è necessario «non commettere lo stesso errore che è stato commesso in alcuni dossier: Russia e Cina devono sedersi al tavolo: non dobbiamo assumere atteggiamenti arroganti, l’occidente deve coinvolgere tutta la comunità per raggiungere adesso l’obiettivo di tenere i Talebani, il nuovo regime, stretto in un dialogo serrato».

Al di là della difficoltà di riconoscere un atteggiamento distensivo nelle pallottole dei Talebani sparate contro chi protestava, le parole del neoleader hanno sollevato molti dubbi anche nel Movimento: oltre al ritardo, i parlamentari vedono la presa di posizione indebolita dal fatto che sia stata necessaria una domanda esplicita, mentre tutti gli altri leader si erano già espressi con interventi autonomi. A creare malumori c’è anche l’impegno delle restituzioni, che secondo alcuni rischia di essere controproducente e di alienare il voto di chi vorrebbe un sostegno a questioni più “italiane”. 

Nel pomeriggio di giovedì l’ex presidente ha provato a correggere il tiro, aggiungendo che sarebbe opportuno «costringerli, per incalzarli sul rispetto dei diritti umani e civili» attraverso un dialogo serrato promosso da «tutta la comunità internazionale, non solo l’Italia o solo l’Europa, ma insieme agli Stati Uniti, coinvolgendo anche Russia, Cina, paesi limitrofi come il Pakistan». E ha risposto a Italia viva, che l’aveva pesantemente attaccato sulla sua uscita: «La polemica proviene dagli esponenti di quella stessa forza politica che ha inneggiato al “rinascimento arabo” e che ha sostenuto fideisticamente che il percorso che si stava compiendo in Afghanistan fosse risolutivo e privo di errori».

Il ritiro delle truppe

La prima presa di posizione pubblica di Conte sull’argomento non è andata bene. È anche l’unica agli atti: l’altra occasione che da presidente del Consiglio aveva avuto per esprimersi sulla questione, in occasione dell’annuncio del ritiro delle truppe a gennaio 2019, l’aveva lasciata cadere.

La claudicante uscita dell’allora ministra della Difesa, Elisabetta Trenta, si era rivelata infatti un boomerang per la comunicazione Cinque stelle: il tentativo di intestarsi il successo di una linea che da sempre il Movimento aveva difeso, il ritiro delle truppe dall’Afghanistan, era alla fine passato come un eccesso della ministra, irriguardosa verso le grammatiche istituzionali.

Trenta aveva annunciato la mobilitazione del comando che avrebbe dovuto gestire il ritiro senza notificare prima la Farnesina, tanto che il ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, aveva ammesso di fronte ai giornalisti di esser venuto a sapere della cosa da loro.

L’imbarazzo era stato notevole anche nei confronti del segretario della Nato, Jens Stoltenberg, irritato dall’iniziativa autonoma, e del Quirinale, che pure aveva ricevuto una  notifica solo a cose fatte. Insomma, Trenta avrebbe concordato la mossa soltanto con palazzo Chigi, ma considerata la complicata situazione che si era venuta a creare, Conte aveva preferito non esporsi in quell’occasione. 

Linea atlantica 

La tensione che era seguita all’annuncio del ritiro, giudicato dalla Nato prematuro, aveva aperto un altro dossier nell’ambito delle tormentate relazioni con l’estero del governo Conte I, poi progressivamente normalizzate nel Conte II.

Nonostante la buona intesa tra l’allora presidente americano Donald Trump e il presidente del Consiglio “Giuseppi”, Washington aveva vissuto con fastidio l’apertura del governo gialloverde nei confronti di Pechino con la firma del memorandum d’intesa sulla Via della Seta come unico paese europeo di rilievo.

La linea filocinese cavalcata allora dal ministro Luigi Di Maio e dal sottosegretario di area leghista Michele Geraci aveva fatto sollevare più di qualche sopracciglio, ma i rapporti istituzionali con la Cina si sono progressivamente normalizzati, soprattutto quando Di Maio ha cambiato ministero.

Una svolta che ha dovuto mandare giù anche Beppe Grillo, che da sempre è in buoni rapporti con i rappresentanti cinesi in Italia: ultimo smacco, l’appuntamento con l’ambasciatore cinese a cui Conte doveva accompagnarlo, salvo poi non presentarsi per evitare una compromissione eccessiva.

La linea di Conte in fatto di politica estera è fatta più di silenzi che di azioni. Anche le poche che arrivano, però, confondono parecchio le idee. 

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