«La fiducia non c’è più», «Sono pronto a far cadere Conte se non fa marcia indietro», «Italia viva è un piccolo partito ma siamo decisivi per il governo», «Non tiriamo a campare, vogliamo cambiare», «Non ci basta uno strapuntino, vogliamo la politica», e via via in un crescendo rossiniano, un vortice di avvertimenti, avvisi e preavvisi di fine mandato, ultimatum e penultimatum. Ancora ieri sera al Senato, Matteo Renzi, come immemore di sé e della sua storia, minaccia la crisi di governo. Si dichiara deciso ad abbattere il premier e mandare a casa l’esecutivo che nell’agosto ‘19 lui stesso ha costretto a nascere, ribaltando il suo esibito disprezzo per i Cinque stelle in una proposta di accordo. E trasformandoli in una mossa, come invertendo i poli di una batteria, da «nemico populista numero uno» a alleato di maggioranza e guida del suo governo.

Reincarnato nel nemico

In questo scampolo di 2020, in attesa dell’esito del nuovo giro di verifica di maggioranza, Renzi deve decidere se portare fino in fondo lo strappo che ha aperto nell’esecutivo; oppure inventarsi un’exit strategy dalla sua eterna tattica senza strategia. Mostrarsi soddisfatto dalle concessioni che Conte prepara e ritirare le minacce non sarà facile senza perdere la faccia: sarebbe un virtuosismo acrobatico proibitivo anche per il fondatore di Italia viva, che nel partito non ha un incarico formale ma decide tutto, roba da fare invidia agli cacicchi a Cinque stelle per non dire all’«egoarca» della Forza Italia degli anni belli.

Vedremo se ce la farà. Ma a stupire stavolta non è l’ennesima capriola politica, una di quelle con le quali in questo anno e mezzo ha spinto la sua maggioranza alla mitridatizzazione, cioè ad assumere il presunto veleno minore del taglio dei parlamentari per combattere un veleno maggiore del governo gialloverde, o quello futuribile verdenero. A stupire è che oggi, con la minaccia di far saltare il governo, Renzi ha superato, forse addirittura rovesciato, i fondamentali della sua parabola politica. Gli è successo quello che Stefano Benni descrive nel poemetto «Prima o poi l’amore arriva»; dove «un supergenerale di superpolizia» impazzisce per una extraparlamentare antimilitarista, e il politico ladro e democristiano finisce a fare carte false per impalmare una deputata integralista e comunista. Un fenomeno a metà strada tra la pena dantesca del contrappasso e la sindrome di Stoccolma.

Perché se c’è stata una certezza costante della vita politica di Renzi, dagli anni in cui era sindaco di Firenze all’inverno della sconfitta del referendum costituzionale, era il disgusto per i minacciatori seriali di crisi, per le minoranze in eterno dissenso, per le rotture, le scissioni, e tutto quello che altri di migliori letture chiamerebbero dialettica e democrazia e pari dignità fra alleati grandi e piccoli. Quel «male oscuro» della divisione, secondo la definizione di Achille Occhetto, che lui identificava nella figura dell’ex segretario di Rifondazione comunista Fausto Bertinotti, eletto ad archetipico della sinistra eternamente rissosa, divisa e perdente. Così, per esempio, nel settembre 2016, alla vigilia del voto referendario, l’allora premier: «Lo dico agli amici dell’Anpi, fuori di qui non c’è la rivoluzione proletaria o la sinistra mondiale. C’è la destra. Si va a finire come con Bertinotti. Si mandano a casa i nostri e si apre la strada alla destra». Nell’occasione l’associazione nazionale dei partigiani venne messa alla gogna: Maria Elena Boschi coniò la categoria dei «veri partigiani», quelli che votavano sì al referendum costituzionale della fine di quell’anno, contro quelli falsi, che invece votavano no.

Il ripetuto attacco alla sinistra «gufa» e litigiosa è stato l’eterno schema di gioco e giochetto del renzismo. Sin dall’inizio, da quando era sindaco di Firenze, nel suo racconto la sinistra radicale era colpevole di non sostenere quella moderata (che nel tempo sarà un suo partito, un suo governo, o anche solo una sua scelta ritenuta però insindacabile). E così di favorire le destre. Nel 2016 la favola autoassolutoria arriva all’apoteosi: «Qualcuno ha la sindrome Bertinotti, per cui chiede sempre di più per non ottenere nulla, io dico che da noi questa sindrome siamo immuni: basta con la rissa continua». Le risse sono sempre quelle degli altri: a novembre, a Firenze, la platea della Leopolda scandisce «fuori, fuori» all’indirizzo di Bersani&Co, che erano per il No. «I leopoldini possono risparmiarsi il fiato, vanno già fuori parte dei nostri», replica l’ex segretario Pd. «Buoni, noi non cacciamo nessuno», tranquillizza Renzi, ma sempre là torna: «Poi se qualcuno vuole fare oggi al Pd ciò che D’Alema e Bertinotti fecero all’Ulivo se ne assumerà la responsabilità». E ancora a novembre, mentre il voto si avvicina e lui definisce «accozzaglia» il variegato fronte del No (che poi avrebbe vinto): «La minoranza è alla ricerca di argomenti per litigare, non rendendosi conto che il rischio di trasformarsi agli occhi della nostra gente come Bertinotti e D’Alema nel 98».

Matteo Renzi alla Leopolda 7, novembre 2016 Foto Federico Bernini/LaPresse

«Bersani come Fausto»

Ma se il 2016 è l’anno della svolta tragica della carriera politica di Renzi, l’anno prima la musica era la stessa. Alle regionali liguri, chi non sosteneva la sua candidata Lella Paita si beccava l’anatema: «Noi stiamo con Obama. Non stiamo con la sinistra rivendicativa tipo Bertinotti, che ha fatto cadere il governo e ha fatto vincere la destra» (in risposta Fausto Bertinotti rivendicò il «rivendicativa»). E ancora: «Bersani che vuole fare? Trasformarsi nel Bertinotti 2015?». «Bertinotti 2 la vendetta», gli farà eco Debora Serracchiani, e non mancheranno battute compiacenti di questo livello anche dal resto del partito contro il candidato outsider Luca Pastorino, «il più fedele alleato di Berlusconi», lo chiama Renzi, «niente di nuovo sotto il sole, è una sorta di Fausto Bertinotti 2.0, che ha già fatto il capolavoro di uccidere il governo Prodi distruggendo l’esperienza il centrosinistra. A volte ritornano».

A volte ritornano. Ma anche a parti rovesciate. Il punto qui non è se Fausto Bertinotti meriti il posto che Renzi gli ha assegnato nel romanzo (politicamente) criminale dell’assassinio del centrosinistra. Del resto l’ex segretario del Prc più volte gli ha risposto rivendicando tutte le sue svolte o rotture, soprattutto le rotture. Il punto è che oggi è Renzi a minacciare di far saltare il suo governo, sbianchettando tutte le sue vecchie omelie da comizio, senza neanche un alito di imbarazzo nel ritrovarsi nella parte dello sfascista che fin qui aveva esecrato. Oggi è il Pd, che a Renzi non crede ma non si fida, ad avvertirlo di «non spianare la strada alla destra». Ed è vero che Giuseppe Conte non è Romano Prodi, ma ugualmente oggi far saltare il governo, se non apre direttamente la strada a Salvini, certo sarebbe una mazzata al futuro centrosinistra, che dovrà tornare alle urne, prima o poi. Per non parlare dell’incognita immediata della legislatura, condannata a proseguire senza possibilità di una svolta che possa chiamarsi svolta, né di una rottura che sia davvero rottura.

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