Meloni è tornata a parlare di riduzione delle tasse al ceto medio, Giorgetti dice no: «Serviranno almeno due anni». Il leghista: priorità è la rottamazione delle cartelle. FI rilancia sulla cittadinanza: «Non dobbiamo chiedere il permesso»
Archiviato il referendum su lavoro e cittadinanza come un insperato regalo delle opposizioni, Giorgia Meloni ha scelto di mandare avanti i suoi colonnelli – a partire dal presidente del Senato, Ignazio La Russa – per attaccare gli avversari, ritagliandosi uno spazio di aureo silenzio limitandosi a un selfie sorridente e uno sberleffo alla segretaria dem: «Elly Schlein dice che i voti del referendum dicono no a questo governo...».
Riprendendo il filo, in occasione degli Stati generali dei commercialisti, la premier ha scelto di prendere un impegno preciso: dopo la riforma delle aliquote Irpef, «ci concentriamo sul ceto medio, che è quello che ha avvertito di più il carico tributario».
Un tema, quello del fisco, che Meloni ha utilizzato spesso anche in campagna elettorale ma che poi al governo è stato temperato con gli inviti informali alla prudenza da parte del ministero dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, che ieri ha ripetuto: «Ci sono ancora due anni e mezzo» di governo. Tutto perfetto se non fosse che, a guastare il clima, ci pensano gli alleati che hanno trovato nuove ragioni per tornare a scontrarsi.
Alla premier – che ha incassato il plauso di Antonio Tajani – ha risposto Matteo Salvini, abituato da tempo a fare da contraltare a palazzo Chigi. L’obiettivo non è la riforma del fisco, «ma una giusta, attesa e definitiva pace fiscale, una rottamazione di milioni di cartelle esattoriali che stanno bloccando l’economia», ha detto, nonostante il Mef su questo abbia predicato calma e sangue freddo.
E non è l’unico tema su cui manca una posizione univoca: a imperversare è ancora l’annosa questione sul terzo mandato ai presidenti di regione. Sembrava chiusa dopo la sentenza costituzionale sulla Campania, invece nel centrodestra c’è ancora chi accarezza l’ipotesi di una legge ordinaria: la Lega la vuole, Forza Italia è ferma sul no, Fratelli d’Italia ha ipotizzato un’apertura ma solo se a chiederla saranno formalmente i presidenti.
Proprio il segnale distensivo di FdI aveva fatto sperare i leghisti, che oggi si riuniscono in un Consiglio federale per parlare delle prossime candidature regionali. Un nuovo stop esplicito, però, è arrivato da Tajani: «Siamo pronti a discutere ma la nostra posizione è di contrarietà, non è contro qualcuno».
Del resto, è il ragionamento di un forzista che dialoga spesso coi meloniani, «anche l’apertura di FdI serve solo a stanare Salvini», che così dovrebbe intestarsi la richiesta di terzo mandato nonostante lui stesso non sia così convinto, ma subisca il pressing del duo Zaia-Fedriga.
Il fine vita
Di certo il vertice di palazzo Chigi non ha rasserenato gli animi. Al centro dell’incontro, a cui hanno partecipato anche il guardasigilli Carlo Nordio e la ministra della Famiglia, Eugenia Roccella, c’era la legge sul fine vita, sollecitata ormai ripetutamente dalla Corte costituzionale che, con la sentenza Cappato, ha fissato i parametri.
Fino a oggi una quadra nella maggioranza non si è trovata ma Meloni intende portare un testo condiviso in Senato per il 17 luglio, quando arriverà in aula il disegno di legge delle opposizioni, primo firmatario il senatore del Pd Alfredo Bazoli.
«Seguiremo le indicazioni della Consulta», ha assicurato Maurizio Lupi. «Ma non esiste un diritto al suicidio, noi siamo per le cure palliative», ha assicurato Tajani, che ha incassato il plauso del vicepresidente della Cei, Francesco Savino. Salvini, con sottile perfidia, ha invece risposto con un sibillino «calma» a chi gli ha chiesto se si sia trovata condivisione.
Del resto, che il testo del ddl sia «ancora in alto mare» lo ha confermato il senatore azzurro Pierantonio Zanettin, che è uno dei relatori e ha rivendicato di aver proposto l’ipotesi di creare con Dpcm un Comitato etico nazionale sul fine vita. Peccato che già esista un Comitato ristretto che «si è riunito pochissime volte, rinviando di continuo ogni decisione», ha detto il capogruppo dem al Senato, Francesco Boccia.
Se l’intenzione del governo è di arrivare in parlamento con un testo blindato, sarà guerra con le opposizioni che, da inizio legislatura, si sono mobilitate chiedendo un confronto in aula e vorrebbero libertà di coscienza per i parlamentari, vista la delicatezza del tema.
Anche il quesito referendario sulla cittadinanza è diventato un casus belli. FI ha rilanciato il suo disegno di legge sullo Ius scholae, per dare la cittadinanza ai ragazzi che abbiano completato il ciclo di studi di dieci anni. «Noi continueremo a sostenerlo, anche davanti ai nostri alleati», ha detto Tajani. Eppure la proposta è stata messa a riposo in parlamento perché in maggioranza è mancata condivisione.
All’epoca Azione aveva detto sì (ribadito oggi) e anche il Pd era pronto a discuterne se FI avesse forzato per portarla in aula. «Salvini non è d’accordo? Non dobbiamo chiedere l’autorizzazione a qualcuno», ha detto ieri il vicepremier azzurro. Ma la cittadinanza è solo uno dei molti dossier su cui l’accordo nel centrodestra non c’è.
© Riproduzione riservata