Il Grande Fratello resterà un’invenzione geniale di George Orwell o più prosaicamente un noto programma trash della televisione. Non planerà sul fisco, come adombrato dalla destra in coro. All’orizzonte non si intravede alcuna stretta sull’evasione con il governo di Giorgia Meloni, che ha definito la caccia agli evasori «un pizzo di stato».

Nessuna preoccupazione per il bacino elettorale tradizionale del centrodestra, perché le tasse non diventeranno «bellissime» come nella celeberrima, quanto infausta, affermazione dell’ex ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa. L’ordine di scuderia di palazzo Chigi è di non scalfire il blocco sociale di riferimento, fatto di imprese e professionisti, granaio di voti preziosi. Ancora di più in tempi di campagna elettorale. Per questo motivo è scattato il leitmotiv tranquillizzante.

La strategia è chiara: l’esecutivo di destra farà di tutto per mantenere e anzi ampliare lo status quo, altro che controlli sui redditi. Il mantra resterà quello della «pace fiscale» o della «tregua fiscale» tanto per citare il lessico bellico caro alla destra. Il resto dei contribuenti italiani, però, potrebbe non dormire sonni tranquilli. Qualcuno dovrà pur pagare il conto.

L’identikit tracciato è quello dei lavoratori dipendenti, soprattutto quelli pubblici, la categoria più invisa alla destra al potere. Impiegati, professori, personale sanitario, per loro non è prevista alcuna indulgenza. Devono farsi piacere le tasse. E pazienza se, tra le tante cose, stanno facendo i conti con l’erosione del potere d’acquisto dopo il picco di inflazione degli ultimi anni. Senza tacere dei tagli ai servizi di ogni tipo.

Stile Berlusconi

Insomma, la vicenda del redditometro è stata una parentesi, uno svarione nell’epopea meloniana, scaricato sulle spalle del viceministro, Maurizio Leo, con il titolare del Mef, Giancarlo Giorgetti, che ha tenuto un profilo bassissimo. Poco male, comunque. Il fuoco di fila di dichiarazioni ostili, da Fratelli d’Italia a Forza Italia passando per la Lega, rende bene l’idea che muove la destra al potere, gli istinti riassunti dallo slogan: “Meno tasse”. Una filosofia cara a Silvio Berlusconi, fin dai primi passi in politica, e che Giorgia Meloni ha mutuato, limitandosi a rivederla aggiornandola ai tempi nostri.

La stella polare del governo è sempre la delega fiscale, che nel prossimo Consiglio dei ministri vedrà un altro step con il decreto legislativo sulle sanzioni tributarie che deve «adeguare i profili processuali e sostanziali connessi alle ipotesi di non punibilità e di applicazione di circostanze attenuanti, al fine di poter beneficiare della non punibilità o delle attenuanti tendendo conto dell’effettiva durata dei piani di estinzione dei debiti tributari, anche nella fase antecedente all’esercizio dell’azione penale», come spiega la relazione illustrativa.

La delega fiscale, nel concreto, ha previsto – tra le tante cose – il concordato biennale preventivo, la madre di tutte le riforme per gli autonomi e le imprese. La misura consente di stipulare un accordo, preventivo appunto, con lo stato per il pagamento delle tasse sulla base delle ipotesi di guadagni. E quindi non sul fatturato concretamente ottenuto nel periodo di riferimento. Gli effetti del decreto legislativo, varato nello scorso gennaio, sono stati sintetizzati dal ragionamento del segretario della Cgil, Maurizio Landini: «Il lavoratore dipendente e pensionato ogni mese paga le tasse su quello che guadagna», mentre i lavoratori autonomi «possono concordare quello che guadagneranno nei prossimi 2 anni. Se guadagneranno di più non pagheranno le tasse».

La conseguenza di questa operazione? «Legalizzare l’evasione», è stata la sentenza di Landini. Un giudizio severo, ma che diventa difficile da contraddire. Se non con la retorica del «fisco amico» propugnata dal governo a reti unificate. Amico degli amici, però.

Non a caso la misura è stata accolta con grande giubilo dai professionisti, che fatturano centinaia di migliaia di euro. Mentre ha lasciato indifferenti i freelance, che invece stentano a mettere insieme mille euro al mese. Ma è una galassia di lavoratori che il governo di destra nemmeno prende in considerazione.

Puzzle di condoni

L’intervento strutturale sul concordato preventivo era stato anticipato da una serie di misure una tantum con la prima legge di Bilancio che aveva tracciato la rotta. Certo, non c’è stato un grande condono, ma c’è stata una sanatoria montata pezzo per pezzo. Un puzzle di almeno dodici sanatorie per evitare di dare troppo nell’occhio, riservando comunque delle carezze al proprio elettorato.

E, in questo senso, come si può definire decisione di rottamare le cartelle sotto i mille euro? Uno stimolo ad aspettare a saldare i conti con il fisco, tanto in qualche misura arriva sempre un intervento provvidenziale da lì a qualche tempo. Con il risultato di far sentire un po’ ingenui, per non dire altro, si mette in regola alla prima sanzione.

In perfetta continuità con questa logica c’è un intervento approvato successivamente, nell’ambito della delega fiscale: la cancellazione delle cartelle non riscosse entro cinque anni. Chi non ha ricevuto la richiesta dell’Agenzia delle entrate nei 60 mesi, può brindare: finisce tutto nella pattumiera.

E sempre il governo Meloni, attraverso le varie modifiche del rapporto tra cittadini e fisco, ha garantito una maxi-dilazione dei pagamenti. I debiti, superiori 120mila euro, possono essere saldati in 120 rate mensili con un pagamento completato in 10 anni. Benefici pressoché sconosciuti al dipendente statale con uno stipendio di 1.500 euro. La fotografia del panorama meloniano è scattata da Antonio Misiani, responsabile del Pd ed ex viceministro dell’Economia: «La montagna di promesse del governo di un nuovo rapporto tra fisco e cittadini partorirà un brutto topolino. Indulgente con i furbi, a danno di chi le tasse le paga fino all’ultimo euro».

Un progetto che avanza, redditometro o meno, a grandi falcate. E così il fisco diventa pacifico per alcuni. O, meglio, per i soliti con la (solita) destra al potere.

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