Al di là di verifiche, rimpasti, elezioni politiche e/o amministrative, per non dire dei piani di Recovery, molto si muove (affinché tutto resti fermo) in vista del 30 giugno, il dì finale dell’attuale consiglio di amministrazione Rai. Che, come del resto quelli precedenti ha fatto quello che ha potuto, entro i margini di manovra quasi nulli che legano la Rai quanto a governance, canone, pubblicità e obbligo di nominare una sfilza riconoscente a chi gli ha scovato uno stipendio.

Nell’avvicendarsi di manager, manutentori e manutengoli è un miracolo (o meglio una prova di resilienza dell’”azienda”) che siano state avviate un paio di faccende notevoli come Rai Play e la modernizzazione dei contenuti e dei linguaggi delle fiction.  

Ciò premesso, secondo un’opinione assai diffusa, il quasi secolare treno Rai sembra avviato sul binario morto se non muta il suo percorso. Ovvero, e in concreto, se non cambia le priorità che guidano l’impiego dei due miliardi del bilancio nell’equilibrio tra i programmi “usa e getta” e quelli a “utilità ripetuta”.

Ai primi vanno oggi i tre quarti del totale, avendone in cambio: 1) le Testate Multiple e Plurali, avvinte ciascuna al suo canale in un turbinio di edizioni principali e secondarie, come relitti fossili di spartizioni antiche (e più politiche); 2) il quiz e il varietà più o meno canterino, ovviamente essenziali, ma che – salvo il ramo sanremese – si riproducono senza sforzi di pensiero, sulla base di format e idee comprate in giro per il mondo e a caro prezzo; 3) i talk show di compagnia, non meno multipli e non meno plurali delle Testate che sul Canale li seguono e precedono.

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Quel che resta dei ricavi, vale a dire un quarto scarso, finanzia i programmi a “utilità ripetuta” che hanno questo nome perché si replicano e si vendono (se son buoni) e divengono fonti di proventi anziché vivere il tempo di una sera.

Ribaltare questa situazione richiede innanzitutto, e di gran lunga, di disinflazionare il palinsesto news per mettere a valore molteplici e numerose professionalità tecniche, redazionali e produttive oggi costrette in quella gabbia. E riprendere il governo della connessa, non meno notevole, massa finanziaria.

Questo è, né più né meno, quanto servirebbe per avere una Rai dotata di quanto è indispensabile per svolgere il ruolo di editore nazionale, sponda solida grazie al canone, dell’intero sistema dell’audiovisivo. Che in parte realizzi e in parte “commissioni” (ai produttori indipendenti) i titoli a valore aggiunto più elevato: format originali, fiction, documentari, cartoon e così via. Ovvero i generi che vanno nel mondo e si vendono da soli purché non siano fatti con i fichi secchi.

Il fine di cotanto sforzo sarebbe, com’è chiaro, l’ampliamento della base produttiva e quindi dei mestieri “creativi” radicati nel retaggio del Paese. Quanti posti di lavoro? Molti, pregiati e solidi, perché: l’intensità del lavoro in questo campo è molto alta; si addicono alle generazioni nuove e dotate di cultura audiovisiva più di ogni altra precedente; sono poco o per nulla esposti alle delocalizzazioni.

Il tutto verrebbe escluso se la routine lottizzatoria trionfasse il 30 giugno, invece di una rapida Riforma (molti ci pensano da tempo) fondata su tre cardini: al vertice un Collegio di professionisti non lottizzabili perché, come in BBC, scadono e si avvicendano in date differenti; risorse immuni dagli scippi; il tempo necessario per riplasmare l’azienda con coraggio e con pazienza; il divieto di affidarsi ai consulenti di mestiere.

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