In tempo di debolezza della politica, ci si affida al carisma dei leader. Nel caso italiano, in quello del presidente del consiglio Mario Draghi, ormai considerato inamovibile fino a fine legislatura (salve sue decisioni ancora imponderabili legate al Quirinale) e l’unico con la credibilità necessaria per essere garante nei confronti dell’Unione europea che l’Italia rispetterà i patti per il Recovery. Non a caso, secondo il sondaggio di Piepoli, la fiducia degli italiani nel premier è al 67 per cento.

Parallelo, invece, corre il sempre maggiore spaesamento nella compagine dei suoi ministri. Complice una coalizione spuria - che ora è chiamata a misurarsi con elezioni amministrative in cui corre ovviamente separata – i titolari dei dicasteri sono sempre più spesso oggetto di attacchi provenienti dalla stessa maggioranza, oppure si trovano in contrasto tra di loro. Una debolezza endemica, questa, che sta facendo sì che il governo si stia progressivamente sempre più connotando per il tratto che è anche caratteriale di Draghi: il decisionismo, temperato solo da una buona educazione politica. Il copione si sta ripetendo sempre identico: i ministri provano a fare sintesi e, se non ci riescono entro la roadmap prevista da palazzo Chigi, la decisione viene adottata dal presidente del consiglio.

Lamorgese

Emblematico di questo è lo scontro sulla ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese. Gli attacchi al suo operato sono arrivati, durissimi, dal leader della Lega Matteo Salvini, che è arrivato a far filtrare anche una richiesta di dimissioni subito spalleggiata da Giorgia Meloni. La ragione della polemica: l’aumento degli sbarchi di migranti sulle coste italiane e la gestione farraginosa del rave party a Viterbo. La ministra, considerata una tecnica anche se già parte del governo giallorosso Conte 2, non ha potuto contare sulla difesa degli altri partiti della coalizione. Tuttavia è stato Draghi a trovare un punto di caduta della polemica: un incontro a tre con Salvini e Lamorgese e il premier a fare da arbitro e soprattutto garante dell’operato della sua ministra. Un modo indiretto per dire che un cambio all’interno dell’esecutivo non è previsto, ma che esiste uno spazio operativo per ritoccare le politiche e far rientrare lo scontro. Soprattutto in vista della gestione della crisi afghana e del conseguente afflusso di profughi, con il centrosinistra che chiede i corridoi umanitari e la Lega orientata ad accogliere solo donne e bambini.

Franco e Orlando

Altro scontro sotterraneo invece è in corso sul versante del centrosinistra e riguarda il ministro del Lavoro e capo delegazione del Pd, Andrea Orlando, e il ministro tecnico dell’Economia, Daniele Franco. Quest’ultimo non è mai stato particolarmente apprezzato dai colleghi: per nulla propenso a condividere le bozze dei provvedimenti coi colleghi e ancora meno a parlare di numeri, gli altri ministri lamentano spesso la poca collaborazione del Mef. Ora i tecnici del Tesoro sono alle prese con la stesura della legge di bilancio, che verrà presentata il 15 ottobre ma la cui stesura è stata cominciata in largo anticipo, l’ultimo a incappare nel muro di Franco è stata la riforma degli ammortizzatori sociali targata Andrea Orlando. Il costo ipotizzato è quello di 10 miliardi e il ministero del Lavoro vorrebbe sapere con precisione che coperture ci sono, anche in vista dei tavoli con sindacati e imprese, ma dal Tesoro continuano a non esserci certezze. Per questo Orlando avrebbe sbottato che «se non fosse per il Mef la riforma degli ammortizzatori l’avremmo già fatta». Il retroscena è stato subito smentito ma la questione dei numeri rimane e la riforma ha subito una battuta d’arresto proprio alla vigilia del rientro dei lavoratori nelle fabbriche e negli uffici.

Giorgetti

Un secondo fronte polemico che riguarda sempre il ministro Orlando è quello sul decreto anti-delocalizzazioni. Questa volta è lui l’accusato di non condividere le bozze dei testi con il ministero dello Sviluppo economico del leghista Giancarlo Giorgetti. Anzi, ancora peggio, di averla condivisa con la viceministra Cinque stelle al Mise, Alessandra Todde, ma non con il ministro. Sul testo è in corso uno scontro tra i due dicasteri, in cui si è inserita anche Confindustria, con il presidente Carlo Bonomi. Nel merito: Orlando vorrebbe introdurre norme impediscano di delocalizzare a proprio piacimento, imponendo l’obbligo per le aziende dai 250 dipendenti in su di comunicare per iscritto il progetto di chiusura per ragioni non legate a squilibri patrimoniali a Lavoro, Mise, Anpal, Regione e sindacati e di presentare un piano per limitare le cadute occupazionali. Giorgetti ha fatto sapere di considerare la bozza sbagliata nella costruzione e nell’impostazione e con lui si è schierato Bonomi, che ha definito queste misure punitive e si è appellato all’intervento di Draghi. Anche in questo caso, lo scontro è stato smentito ma è già stato confermato che la bozza verrà modificata. A lavorarci è, insieme a Lavoro e Mise, anche lo staff di tecnici di palazzo Chigi dove si stanno svolgendo le riunioni. Il coinvolgimento del premier è totale, dunque il prossimo testo che uscirà avrà una sorta di bollinatura preventiva, ma è anche il segno del fastidio di Draghi per la circolazione indebita di bozze, utile solo a scaldare gli animi di sindacati e industriali, e la sua volontà di evitare ulteriori fughe.

Bianchi e Giovannini

Altri due ministri in odore di problemi sono quello dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, e dei Trasporti, Enrico Giovannini. La ripartenza in sicurezza e in presenza dell’anno scolastico è stata una delle prime promesse del governo Draghi, ma a due settimane dal via la confusione su come si controllerà il green pass e i protocolli da seguire è ancora molta. Il ministero dell’Istruzione ha fatto sapere di essere al lavoro su una app da fornire ai presidi per velocizzare l’attività di controllo: non si tratterebbe, infatti, solo di un lettore del qr-code ma di un collegamento telematico con la banca dei Green pass. Quanto alla gestione delle classi numerose, si starebbe lavorando a interventi mirati sugli istituti in cui il problema si pone, che sarebbero pochi e localizzati nelle grandi città. Il tempo, però, sta per finire ed è ancora aperta l’altra questione nodale, ovvero il trasporto pubblico. Con la riapertura delle scuole, infatti, l’affollamento su autobus e pullman rischia di essere inevitabile. Esiste una bozza con le nuove linee guida, che prevedono di mantenere la regola dell’80 per cento di riempimento dei mezzi, ma il problema è quello dei controlli e delle risorse per compensare sia il surplus di corse che i maggiori costi per le aziende. Il ministro Giovannini ha fatto sapere che le riunioni procedono positivamente per definire i prossimi passi di potenziamento del trasporto pubblico locale, con i nuovi piani per la mobilità entro il 2 settembre. Tuttavia i dubbi sono ancora molti e, anche in questo caso, ad essere chiamato in causa dai sindacati è sempre palazzo Chigi. La richiesta, in particolare, è quella di chiarire il regime dei controlli per il green pass e le eventuali sanzioni.

L’obbligatorietà del green pass è la questione più spinosa per Draghi: i suoi ministri sono divisi, con il titolare della Sanità Roberto Speranza che spinge per introdurla, contro lo scetticismo in particolare della Lega. Anche in questo caso, la presa di posizione finale è demandata al presidente del consiglio a cui tutti si appellano: il decreto sul Green pass arriverà a Montecitorio all’inizio di settembre e il dibattito si preannuncia acceso. Da palazzo Chigi, tuttavia, filtra la solita tranquillità: l’appello è quello alla responsabilità delle forze politiche. Con la certezza sottintesa, però, che nessuno nell’attuale maggioranza ha intenzione di tirare troppo la corda e di irritare il manovratore.

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