Italia viva fa con il Partito democratico il gioco del gatto con il topo, finché può. Lo ha fatto con la legge elettorale, lo ha ripetuto con la norma per abbassare l’elettorato passivo al Senato: prima dà un mezzo via libera al testo, poi non lo vota. Infine un dirigente chiosa: «Vedete che senza di noi non ci sono i numeri in parlamento?». Lo ha detto Maria Elena Boschi, lo ha ribadito Ettore Rosato.

I presupposti che giustificano questa tattica sono due: è vero che senza Italia viva il governo non ha i numeri, ma è altrettanto vero che il partito di Matteo Renzi non sarà mai più così determinante come lo è ora. I sondaggi, infatti, lo inchiodano tra il 4 e il 5 per cento. Numeri che, se confermati dal voto, relegheranno i renziani a una presenza quasi simbolica, sempre che riescano a superare lo sbarramento elettorale. Proprio questo è il perno attorno a cui ruota ogni strategia: il testo base del Brescellum, la legge proporzionale con sbarramento al 5 per cento, è fermo. I renziani, dopo un primo via libera pre referendario, hanno di nuovo bloccato il percorso, sparigliando le carte. «Sono per il maggioritario», ha detto Renzi, che non ha chiuso del tutto al proporzionale ma ha lasciato intendere che c’è ancora molto da lavorare prima di arrivare a un testo condiviso. In particolare sulla soglia di sbarramento, considerata troppo alta non solo dai renziani ma anche da Liberi e uguali.

Le nomine

Per questo, ora come ora l’obiettivo è quello di capitalizzare il più possibile, sia in termini di potere negoziale che di nomine. E questo avviene sia su scala nazionale che locale. Le poltrone vacanti nelle società di stato sono ambite e numerose, e Italia viva punta a piazzare almeno un paio di nomi d’area, anche se Renzi è già riuscito a piazzare una persona di fiducia, Simonetta Giordani, nel consiglio d’amministrazione della nuova Alitalia. Per questo alzare la temperatura dentro la maggioranza in parlamento potrebbe aiutare a scongelare le nomine ancora bloccate. Contemporaneamente, anche in Toscana la sfida riguarda gli assessorati. Nonostante il 5 per cento ottenuto alle regionali, Italia viva punta a una poltrona pregiata della giunta di Eugenio Giani: la Sanità, uno dei fiori all’occhiello della regione ma soprattutto un ruolo chiave dal punto di vista della gestione del bilancio.

I renziani provano un gusto sottile a destabilizzare il dibattito interno del Pd e lo fanno a ogni occasione. Ieri è toccato alla questione del sindaco di Roma: il leader di Azione, Carlo Calenda, ha tergiversato per giorni ma domani dovrebbe scendere in campo. Il Pd ancora non esclude di poter individuare un proprio candidato, magari trovando una convergenza con il Movimento 5 stelle, e ancora non è escluso il ricorso al meccanismo delle primarie. In questo squadrarsi a vicenda, l’artiglieria renziana ha fatto il suo endorsement. «Non sono cittadina di Roma ma se lo fossi voterei volentieri una persona come Carlo», ha detto Maria Elena Boschi a Repubblica. «Se Carlo deciderà di scendere in campo siamo contenti e lo sosteniamo», ha aggiunto Ettore Rosato.

Il rimpasto

Il ricatto dei renziani nei confronti degli alleati maggiori di governo, che prediligono la contrattazione a due, è chiaro: se fate i conti senza di noi, noi ci sfiliamo. Nel caso del voto ai diciottenni, che doveva essere un successo targato Pd, lo stop è arrivato per ragioni di metodo. «Serve un’idea di riforma compiuta e sulla base di quella fare delle scelte», dice la ministra e capo delegazione di Italia viva, Teresa Bellanova. Proprio lei è stata identificata dal gruppo del Pd come l’ariete renziana: per ogni passo dei dem, arriva una sua chiosa contraria. «Ma sono tutte scuse, i renziani hanno solo ansia di far vedere che sono decisivi, nell’ottica del rimpasto», dice un senatore Pd di lunga esperienza parlamentare. Evocato da tutti a porte chiuse ma smentito pubblicamente da Renzi, il rimpasto sarebbe il vero obiettivo di questa politica di logoramento. La poltrona ambita è quella del ministero della Difesa, occupata dal dem Lorenzo Guerini. Miliardi di euro del Recovery Fund andranno alla Difesa e una grossa fetta dell’investimento riguarderà la cybersecurity. Proprio la sovranità digitale, oltre a essere centrale su scala europea, è uno dei temi a cui l’entourage renziano è sempre stato particolarmente interessato. Da lì, poi, un fedelissimo renziano potrebbe sedere ai tavoli europei e internazionali e sponsorizzare la nomina delle nomine: quella dell’ex premier a segretario della Nato. Tutto dipende dalla vittoria di Joe Biden alle presidenziali americane, ma che questa sia l’ambizione di Renzi si dice da mesi. La notizia suscita un misto di ilarità e stupore, ma ritorna ciclicamente nei discorsi tra parlamentari di maggioranza.

La mossa del Pd

Rimane da capire come reagirà il Pd al gioco pericoloso di Renzi: se e per quanto sarà disposto a fare la parte del topo davanti a un partito che pretende più di quanto pesa elettoralmente. L’irritazione è massima: i parlamentari dem non hanno dimenticato che se oggi Italia viva conta 30 deputati e 18 senatori, è solo grazie al colpo di mano del 2018. Da segretario del Pd, infatti, l’ex premier avrebbe progettato le liste elettorali con la scissione già in testa, garantendo l’elezione a una nutrita truppa di suoi fedelissimi. In questo modo sapeva di assicurare alla sua futura creatura politica una forza parlamentare consistente per tutta la durata della legislatura, a prescindere poi dall’effettivo e immediato successo elettorale. E così è accaduto. Per questo una parte del Pd è intemperante davanti alle provocazioni e vorrebbe la prova di forza per scoprire il bluff renziano: Italia viva non avrebbe mai il coraggio di provocare una crisi di governo perché, stando ai sondaggi, non eleggerebbe più di una quindicina di parlamentari. Un’altra parte dei dem invece suggerisce prudenza al segretario Nicola Zingaretti, perché rispondere significa legittimare la posizione di Italia viva. Meglio lasciare che si logorino, scommettendo sulla loro naturale estinzione alla prossima tornata elettorale.

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