Pezzo per pezzo, si sgretola un po’ ogni giorno il piano con cui il governo era convinto di procedere senza intoppi verso un lockdown nazionale purché non dichiarato. Il piano è quello contenuto nell’ultimo Dpcm del 3 novembre, che prevede il complicato meccanismo per spedire le regioni «automaticamente», «oggettivamente» – sono parole del premier Giuseppe Conte – nelle diverse fasce di rischio. Ieri dalla lunga riunione con i capidelegazione della maggioranza – sul tavolo oltre l’emergenza Covid c’era la legge di bilancio, oggi si vedranno con il ministro Roberto Gualtieri – è rimbalzato il no a un lockdown generale, che molti scienziati invece ritengono inevitabile e persino auspicabile. Con i ministri c’erano i presidenti dell’Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro e del Consiglio superiore della sanità Franco Locatelli. In serata il viceministro alla sanità Pierpaolo Sileri lo ha escluso. Categoricamente, o quasi: «Salvo che i dati domani e dopo domani (oggi e domani, ndr) mostrino in tutte le regioni, in maniera omogenea, una rincorsa al virus non fattibile e dei posti letto non più presenti, per cui altre regioni diventano di colore rosso, ma è molto improbabile. È verosimile invece che altre regioni meritino un innalzamento di livello di guardia e diventando arancioni e qualcuna rossa». Lo scivolamento al rosso dunque è solo rimandato. Se ne riparla venerdì, con il nuovo report dell’Iss.

Nel frattempo però di fatto cambia l’algoritmo del rischio, quello che veniva estratto – nel cielo stellato delle teorie di palazzo Chigi – dai famosi 21 indicatori. Il verbo di cui viene caldamente consigliato l’uso non è «cambiare» ma «rimodulare». Ma la sostanza è che da due giorni nella cabina di regia è diventato senso comune il fatto che, per stabilire la fascia di rischio in cui collocare le regioni, non è possibile valutare tutti i 21 indicatori su uno stesso piano. Quei numeri sono divisi in tre ambiti: il primo misura la capacità di raccolta dati delle singole regioni; il secondo la capacità di testare i casi sospetti e garantire contact tracing, isolamento e quarantena; il terzo la capacità ricettiva dei servizi sanitari. Ora i tecnici studiano la possibilità di far «pesare» di più l’indicatore che da subito era sembrato quello determinante, e cioè l’Rt, il tasso di contagiosità ovvero l’indice di riproduzione della malattia, il rapporto tra i già contagiati e i possibili nuovi contagiati. Solo poche regioni sono sotto l’1,5: Sardegna, Marche, Lazio, Sicilia, Toscana e Liguria. Allo studio anche una soluzione per far «pesare» i dati più recenti su quelli che arrivano già vecchi e superati. Ma anche l’Rt mediano di una regione nasconde le condizioni reali dei territori.

Caso per caso

Così, dopo ore di confronto, il ministero ha convinto alcuni presidenti a procedere con ordinanze proprie verso chiusure di singole zone. Le ha annunciate il leghista Massimiliano Fedriga, del Friuli Venezia Giulia a Radio Capital: «Abbiamo visto fenomeni, soprattutto nei fine settimana, dove in realtà prima delle 18 c’erano più persone in piedi, vicine e senza mascherina. Ci preoccupa. Cercheremo di limitarlo». Il veneto Luca Zaia ha rivelato che con Emilia Romagna e Friuli faranno ordinanze «che siano in linea come principio, poi ognuna avrà le sue peculiarità».

Diversa la partita della Campania, che resta «sorvegliata speciale». Contro il presidente Vincenzo De Luca ieri i Cinque stelle hanno fatto sapere di non credere alla «zona gialla», parla di «sanità allo stremo» e chiede «misure restrittive». C’è chi giura che anche il ministro Luigi Di Maio la pensa così. Lo scontro sulla Campania impatta nella maggioranza. Il Pd non ama De Luca ma non può tollerare che venga preso a schiaffi. Speranza si barcamena in mezzo. Se la cabina di regia ha «vidimato» i numeri inviati da De Luca, lui ha inviato i suoi ispettori negli ospedali campani per verificarli. Soprattutto le terapie intensive: risultano occupate al 27 per cento. I posti ci sono, dunque. Ma i medici? Ieri le verifiche si sono concluse. Dal canto suo De Luca, in continua polemica con il sindaco di Napoli Luigi De Magistris, ha scritto al prefetto del capoluogo per chiedere «di anticipare rapidamente le misure previste per il livello di rischio alto», considerando gli «episodi clamorosi di assembramenti fuori controllo sul lungomare di Napoli». De Luca prepara strette per centri più piccoli come Giugliano e altri comuni dell’area vesuviana. Ma non per Napoli.

Napoli è un problema delicato. Se il sindaco non vuole agire, tocca a Roma. Messaggio ricevuto: Roma, cioè Conte, fa sapere che la Protezione civile può inviare l’esercito. E istituire gli «Hotel Covid» per alleggerire gli ospedali. Il governo deve correre ai ripari anche sulla vicenda del vaccino: il commissario Domenico Arcuri, ormai il mister Wolf di palazzo Chigi, si occuperà anche di questo.

Infine a Conte non riesce a trovare il bandolo per imbastire un dialogo con le opposizioni. Giovedì al senato, in commissione, si terranno le ultime audizioni sul comitato bicamerale per l’emergenza proposto da Forza italia. Il Pd sarebbe d’accordo. Ma la Lega e Fdi no. Per Fi una soluzione c’è: scrivere insieme la finanziaria, come da giorni predica l’ex ministro Renato Brunetta. «Una buona proposta», secondo il segretario dem Nicola Zingaretti. Ma è una scelta che comporterebbe se non un terremoto, di certo un bradisismo nella maggioranza, almeno nel lato grillino.

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