In mattinata Enrico Letta va a palazzo Chigi per il suo primo colloquio da segretario Pd con Mario Draghi, anzi il primo colloquio di un segretario Pd con il presidente del Consiglio (Zingaretti si è dimesso prima ancora di ottenere un appuntamento). I due hanno consuetudine di rapporto, l’incontro dura un’ora, filtrano solo due aggettivi, «cordiale e positivo», ma è difficile che non si sia parlato del duello di questi giorni fra il leader dem e Matteo Salvini. A proposito di governo, si è discusso di «merito e metodo». Nel pomeriggio Letta vede il ministro Roberto Speranza. Nei giorni scorsi il segretario di Art.1 ha colto al balzo l’ipotesi di nuovo Ulivo (che Letta immagina in alleanza con i Cinque stelle) e a sua volta rilanciato con una «fase costituente» del centrosinistra.

Rivolta renziana

Nel partito non tutto scivola liscio. Gli ex renziani non hanno apprezzato le dichiarazioni scettiche di Letta sull’allargamento dell’aeroporto di Firenze. Ma il primo vero scoglio arriva oggi alle riunioni con i parlamentari. Alle 9 e 15 vede i deputati, nel pomeriggio i senatori. Non tutti hanno preso bene la proposta lanciata dalle colonne del quotidiano livornese Tirreno: l’intenzione di «valorizzazione delle donne» negli organigrammi del partito e, nell’immediato, di eleggere due donne alla direzione dei gruppi. Ma è «un’indicazione politica e identitaria precisa» del nuovo segretario, viene spiegato al Nazareno, non rispettarla sarebbe «reiterare» atteggiamenti da vecchio Pd. La questione di genere risulta un tema sensibile nella base del partito. Dunque Letta andrà avanti nonostante i malumori siano rapidamente diventati annunci di resistenza. Garantendo che «non è in discussione l’autonomia dei gruppi e neanche i loro numeri». Tradotto: Letta sa che gli eletti in parlamento sono frutto delle liste decise nel 2018 dall’allora segretario Matteo Renzi. Sa anche che il suo predecessore Nicola Zingaretti non è riuscito a cambiare quegli equilibri. Quegli equilibri dunque restano, ma i gruppi dovranno scegliersi due nuove presidenti.

«Quando ho posto la questione è partita una serie di critiche per dire che lo faccio per fatti miei» dice dal sito di Repubblica mentre presenta il libro Che fine hanno fatto i bambini di Annalisa Cuzzocrea. «In Europa è la questione di genere è una precondizione», ragiona il segretario, «la squadra del Pd è una squadra solo di maschi e la questione delle quote non è sufficiente». Non saranno «due donne pur che sia», «i gruppi sceglieranno donne di qualità. Non giochiamo nel campionato maschile, ma nel campionato di tutti».

Ma come accade spesso nel Pd fra il dire e il fare c’è di mezzo un mare di conservazione. Prima, di mattina, al Senato si è riunita la corrente di minoranza Base riformista. Uno dei due leader, Lorenzo Guerini non c’è, il ministro della Difesa ieri era in missione nella Repubblica di Gibuti. Nel dibattito pesa l’opinione di Andrea Marcucci, attuale presidente, molto autonomo (è un eufemismo: nell’èra Zingaretti era considerato un renziano rimasto nelle file del Pd). Marcucci resiste: oggi vanta il risultato di aver fatto tornare a casa due, forse tre senatori di Italia viva. Soprattutto vanta una maggioranza solida, una ventina di voti in un gruppo di 35. Il voto sarà segreto, per ora la linea è «avanti con Marcucci».

Alla Camera si sente lo stile diverso di Graziano Delrio. Anche lui stamattina si presenterà dimissionario. Domenica ha fatto sapere, fatta salva naturalmente l’autonomia dei gruppi, di condividere il criterio di riequilibrio di genere. Ha anche ricordato di essersi battuto perché «a tre delle cinque presidenti di commissione spettanti al Pd fossero indicate donne». Qui a Montecitorio la partita si gioca fra Debora Serracchiani, che a Delrio è vicinissima, e Alessia Rotta, di Base riformista. Si fa il nome anche di Marianna Madia, fin qui vicina a Zingaretti – ma è stata vicina a Veltroni ed è stata ministra dei governi Renzi e Gentiloni. Ma non sarebbe in corsa. Sulla carta la maggioranza è di misura, ma è difficile che il gruppo non cerchi una soluzione largamente maggioritaria.

A Palazzo Madama invece, a non prendere sul serio la fiera resistenza di Marcucci, in corsa sarebbero Caterina Bini e Valeria Fedeli per Base riformista (si fa il nome anche della sottosegretaria Simona Malpezzi ma non sarebbe verosimile chiederle di lasciare il governo). Per chi non è della minoranza invece la candidata più autorevole è l’ex ministra Roberta Pinotti, area Franceschini. Oggi si apre la partita ma con ogni probabilità in entrambi i gruppi il voto slitterà a quando ci si troverà una soluzione.

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