Come la maggior parte delle inchieste sull’intreccio tra soldi e potere, anche quella sulla gestione dell’emergenza del Covid-19 in Lombardia ha molti fronti. Si tratta di diverse notizie di reato, la cui competenza ricade sotto procure differenti. L’inchiesta di Milano riguarda la compravendita da parte della regione Lombardia di camici per il personale sanitario. Il presidente della regione, Attilio Fontana, è indagato per frode. L’inchiesta di Pavia, invece, indaga sull’accordo tra policlinico San Matteo e l’azienda Diasorin per lo sviluppo di test e sono indagati solo i dirigenti dell’ospedale.

Entrambe le procure, però, hanno scelto di utilizzare uno strumento d’indagine particolare: il sequestro e la copia completa dei cellulari di alcune persone, alcune indagate e altre no. Nel caso di Fontana, i sequestri del contenuto del cellulare sono stati due: uno disposto dalla procura di Milano che lo sta indagando; un altro è stato deciso dalla procura di Pavia ma, poiché Fontana non è indagato, si è trattato di una perquisizione presso terzi. «Il presupposto è sempre che ci sia la probabilità effettiva dell’esistenza di un reato, ma si tratta di una previsione atipica. Con la perquisizione presso un terzo, infatti, si presuppone che le prove necessarie si trovino nella disponibilità, in questo caso nel cellulare, di una persona non indagata», spiega Giorgio Spangher, professore emerito di procedura penale all’università La Sapienza.

Nella pratica: la guardia di finanza effettua una perquisizione, si fa consegnare il cellulare, ne copia il contenuto completo – dalle chat alle immagini, fino alla rubrica e alle mail – e poi lo restituisce al proprietario. Dal punto di vista tecnico, è identico al sequestro di un faldone di documenti cartacei o di un qualsiasi oggetto che il codice di procedura penale definisce «pertinente al reato». Anche se riguarda le informazioni contenute in un cellulare, questo mezzo di ricerca della prova non ha nulla a che vedere con le intercettazioni e i virus spia Trojan.

Il sequestro

Da un punto di vista concreto, sembra non esserci alcuna differenza tra una chat telefonica ottenuta attraverso l’intercettazione via Trojan e una ottenuta con il sequestro del cellulare. Ma i presupposti giuridici sono molto diversi. Nel caso di una chat sequestrata, la ragione che giustifica il sequestro di «cose pertinenti al reato e necessarie all’accertamento dei fatti» è la gravità del reato ipotizzato. Nel caso di una chat captata con il virus, invece, il presupposto per installare il Trojan è che esistano gravi indizi di reato, che lo strumento sia indispensabile per la prosecuzione delle indagini e che il reato ipotizzato rientri tra quelli per cui è consentito l’uso dello strumento. I provvedimenti delle due procure sono diversi. Milano, infatti, ha fatto copia completa dei dati del cellulare di Fontana, ma ha disposto che la ricerca dei contenuti rilevanti per l’indagine venga fatta per «parola chiave». Gli inquirenti non vedono l’intero contenuto del cellulare ma si limitano a cercare secondo alcune parole individuate dalla procura. In questo modo, la procura di Milano ha esercitato una prudenza maggiore, circoscrivendo il perimetro di interesse del sequestro rispetto all’indagine. «Quando vengono sequestrati faldoni di documenti cartacei, la difesa può poi chiedere al tribunale del Riesame il dissequestro e la restituzione dei documenti irrilevanti per l’indagine. Nel caso della memoria di un cellulare, è la procura ad aver agito con la stessa prudenza, mirando su un bersaglio preciso», dice Spangher.

La procura di Pavia ha invece disposto il sequestro di tutto ciò che è contenuto nel cellulare di indagati e non, Fontana compreso, senza delimitare a una serie di parole chiave la ricerca. Proprio questo ha sollevato i maggiori dubbi da parte della difesa del governatore, soprattutto perché nel cellulare di Fontana sono conservate chat con ministri e dirigenti leghisti. Magari irrilevanti per il procedimento, ma significativi sul piano politico.

I dubbi di costituzionalità

«Contesteremo la mancanza di proporzionalità e di pertinenza del sequestro», ha detto Jacopo Pensa, avvocato del presidente lombardo Fontana, che ha già annunciato il ricorso al Riesame. «Solleveremo dubbi sul piano della costituzionalità, vista anche la ovvia presenza di conversazioni di carattere istituzionale nel cellulare del presidente». La Costituzione, infatti, tutela il diritto alla riservatezza nelle comunicazioni, la cui compressione è possibile solo nei casi previsti dalla legge. «Un sequestro come quello disposto dalla procura di Pavia implica che gli inquirenti possano avere accesso senza limiti all’intera vita informatica di una persona, per altro ad oggi nemmeno indagata. Dunque al di fuori di qualsiasi proporzionalità», ha spiegato Pensa. In questo sta l’eccezionalità del sequestro del contenuto di un cellulare e la differenza sostanziale rispetto a qualsiasi documento cartaceo. «Il sequestro di cose fisiche pertinenti al reato circoscrive di fatto il raggio di invasività. La memoria di un cellulare tocca potenzialmente l’intera vita del proprietario», dice Spangher.

Il particolare contesto giustifica un timore ulteriore. Se la polizia giudiziaria vede tutto quello che c’è nel cellulare di Fontana, esiste la possibilità che si imbatta in nuove notizie di reato – tutte da dimostrare – a carico del governatore o di altri con cui ha scambiato comunicazioni. In questo caso, la procura sarebbe legittimata ad aprire nuove indagini, sorrette dalla “soffiata” ricavata dal contenuto telematico sequestrato. Una catena potenzialmente infinita, che corrode i limiti della segretezza delle comunicazioni e toglie qualsiasi argine all’invasività della procura.

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