L'inchiesta dei magistrati di papa Francesco ha oltrepassato le mura leonine. I finanzieri Raffaele Mincione e Gianluigi Torzi, considerati dai promotori di giustizia tra i principali responsabili della presunta truffa sulla compravendita da 200 milioni di euro del palazzo a Londra, sono infatti indagati per autoriciclaggio e riciclaggio anche dalla procura di Roma.

Il nuovo fronte è partito, scopre Domani, dopo le rogatorie spedite in Italia dalla Santa Sede: ricevuto l'incartamento, i pm di Piazzale Clodio ipotizzano che, dopo aver lucrato sull'affare immobiliare, i due imprenditori avrebbero riciclato i presunti proventi illeciti (40 milioni di euro Mincione, 15 milioni Torzi), depositandoli su conti esteri e società offshore. Operazioni che secondo gli indagati sarebbero invece legittime, e frutto di contratti del tutto regolari.

Dopo il licenziamento dell'ex prefetto della Congregazione dei Santi Angelo Becciu, il cardinale travolto dai sospetti di Francesco in merito agli affari dei suoi fratelli e a sue responsabilità sul business londinese, l'indagine dunque fa un altro salto in avanti.

Il dossier “Vaticanopoli”, così viene ormai chiamata sotto il Cupolone l'indagine della gendarmeria e dei promotori Gian Piero Milano e Alessandro Diddi, è ormai diviso in vari filoni. I fascicoli spaziano dai presunti peculati del porporato agli affari del petroliere angolano Antonio Mosquito suo amico (non indagato), passando alle analisi dei flussi bancari di Mincione, Torzi e l'ex Credit Suisse Enrico Crasso, curate a Roma dalla Guardia di Finanza e alla Unità di informazione finanziaria di Bankitalia, mentre il Vaticano fatto rogatorie in Svizzera, Panama e Santo Domingo, che non sempre hanno finora avuto risposta.

Non solo: le verifiche sui conti correnti e sui comportamenti di un mezza dozzina di laici e monsignori coinvolti nella gestione dei fondi riservati della Segreteria di Stato, provenienti in gran parte dall'Obolo di San Pietro non si sono mai fermate, e promettono colpi di scena. Sotto la lente sono finiti in particolare Alberto Perlasca, potente monsignore un tempo vicinissimo a Becciu, (Perlasca ora collabora con gli inquirenti: nei suoi interrogatori il nome del cardinale accusato da Francesco di peculato compare più volte) e Fabrizio Tirabassi, economo dell'ufficio già licenziato dal papa prima ancora dell'inizio di un eventuale processo.

La contromossa di Mincione

Mincione, al centro della bufera e considerato dal Vaticano di fatto co-responsabile di un buco nei conti da centinaia di milioni di euro, tra cattivi investimenti e denaro ottenuto illegalmente, ha però deciso di contrattaccare duramente.

E tra qualche giorno spera di segnare un punto a suo vantaggio in una partita, mediaticamente e giuridicamente, molto complicata. Il tema è la validità del contratto con cui la Segreteria di Stato ha comprato, nel novembre 2018, l'intera quota del palazzo, divenendone l'unico proprietario. Una decisione presa in fretta e furia non da Becciu, ma dal suo successore, il nuovo Sostituto Edgard Pena Parra, oggi braccio destro del segretario di Stato Pietro Parolin e considerato fedelissimo di Bergoglio.

Visto che l'immobile non rendeva affatto quanto sperato, nel 2018 il prelato decide di uscire dal fondo lussemburghese di Mincione, l’Athena Capital Global in cui Becciu era entrato quattro anni prima, il più rapidamente possibile. Il contratto che divide i destini del finanziere e della Santa Sede, di cui Domani ha una copia, è sorprendente: non solo perché si mette per iscritto che Mincione otterrà dalla Segreteria di Stato una buonuscita da 40 milioni di euro, ma pure perché Pena Parra e i suoi uomini decidono di affidare la gestione del palazzo appena ricomprato a un veicolo lussemburghese, la Gutt Sa.

Di chi è? Del misterioso finanziere Gianluigi Torzi, un raider già indagato da alcune procure italiane e segnalato nelle liste nere del database WordCheck. Oltre a quelle di Mincione e Torzi, in fondo al contratto c'è anche la firma di Alberto Perlasca, rappresentante della Segreteria di Stato.

Secondo i promotori di Giustizia, quel documento non è valido. In una rogatoria in Svizzera, inviata per carpire i segreti dei conti correnti del finanziere presso l'Ubs e individuare i proventi di eventuali reati, Diddi ha segnalato come la nullità dell'atto comporti che Mincione si sia impossessato illegittimamente dei 40 milioni pattuiti.

Per Mincione invece quel pezzo di carta rispetta ogni norma di legge, e il conguaglio non è dunque arricchimento illecito, ma un prezzo stabilito liberamente dai firmatari, Vaticano compreso. Così, qualche mese fa ha chiamato in giudizio la Santa Sede davanti l'Alta corte di giustizia inglese (sezione affari e commercio) per stabilire davanti a un giudice chi ha ragione. Una scelta rischiosa: perché se il Vaticano presentasse prove di atti corruttivi, il diritto anglosassone prevede l'automatica invalidità del merge. La sentenza della causa è attesa per il 15 ottobre, ma la Segreteria di Stato – scopre Domani - ha deciso di non presentarsi, e di non entrare per ora nel merito della controversia.

E Parolin non va dai giudici

Lo studio legale Hill Dickinson, che la assiste a Londra, in una lettera inviata agli avvocati di Mincione, ha spiegato che «il nostro cliente intende contestare la giurisdizione». Pietro Parolin e i suoi rappresentanti non si presenteranno davanti ai giudici perché lo Stato della Città del Vaticano di fatto non riconosce, in merito alla controversia con Mincione, l'autorità della corte inglese.

Una mossa che Mincione contesterà: la Santa Sede, dicono i suoi legali Peter Wood e Giulia Trojano, è azionista della società inglese 60 Sa (e dunque regolamentata dal diritto britannico) che controlla il palazzo di Sloane Avenue, e pure il contratto di sottoscrizione con l'Athena è basato sul diritto inglese. L'ultimo rigo del contratto firmato da Perlasca evidenzia, in effetti, che eventuali dispute saranno trattate «nelle competenti corti dell'Inghilterra».

L'imprenditore accusato della stangata, però, non solo deve solo sperare che la Corte si consideri competente. Ma pure che la sua tesi venga accettata. Se perde, per i giudici vaticani si aprono praterie. Ma se il tribunale considererà corretto e valido quel contratto, Mincione ha già minacciato di chiedere danni d'immagine e patrimoniali per centinaia di milioni di euro.

Per papa Francesco, che spinge Vaticanopoli e che insiste nella promessa di non volere fare sconti a nessuno, sarebbe una beffa. Ecco perché gli investigatori lavorano notte e giorno per trovare evidenze del do ut des che spieghino i motivi di intese che loro considerano economicamente illogiche. Perché se per la defenestrazione di Becciu, al netto di accuse penali ancora da verificare, hanno pesato condotte giudicate dal papa già eticamente inappropriate per un uomo di una Chiesa che vuole «povera per i poveri», per inchiodare alle proprie responsabilità i vari indagati serviranno prove schiaccianti.

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