Lo scorso giugno il Vaticano ha chiesto a Gianluigi Torzi, arrestato per una presunta estorsione, di firmare una cauzione del valore di circa tre milioni di euro. In cambio dei soldi il broker è uscito dalle celle vaticane dove era stato rinchiuso dieci giorni prima per ordine dei promotori di giustizia che indagano sullo scandalo del palazzo di Londra. Immobile comprato con i soldi dell’Obolo di San Pietro. Quando la Santa sede ha tentato di incassare la somma promessa, però, ha scoperto che i conti correnti in Svizzera non erano intestati a Torzi – che intanto era già volato a Londra – ma a suoi prestanome e ad altre entità, come trust e società anonime. E così non ha ricevuto un euro.

La vicenda Torzi non smette di regalare colpi di scena. Se una «cauzione pagata il 15 gennaio 2020» è segnalata (senza i dettagli svelati da Domani) nella sentenza della corte inglese che ha escluso che il finanziere abbia estorto illecitamente soldi al Vaticano, altre carte inedite evidenziano come gli inquirenti hanno provato in tutti i modi a bloccare la pubblicazione della sentenza, senza riuscirci.

Imbarazzi

Dentro le mura vaticane l’imbarazzo è grande. In molti temono ormai che papa Francesco e gli organi inquirenti abbiano commesso gravi errori di valutazione. Sia nella gestione dell’inchiesta che cerca di fare luce sullo scandalo dell’immobile di Sloane Avenue, sia nei rapporti con i tribunali di altri paesi come Italia e Gran Bretagna, dove i diritti della difesa sono molto più strutturati di quanto previsto dal vecchio codice Zanardelli ancora in vigore Oltretevere.

Dopo le bocciature arrivate dal tribunale del Riesame di Roma e dalla corte d’appello di Milano (in merito ai filoni d’inchiesta generati da quello principale), il giudice Walter Baumgartner ha scongelato alcuni conti di Torzi che erano stati sequestrati su richiesta del Vaticano lo scorso novembre. Ma in un minuzioso dispositivo è andato oltre, e ha smontato quasi per intero le accuse dei pm del papa contro l’uomo che è riuscito a sfilare 15 milioni alla Segreteria di Stato. Spiegando che il brasseur d’affaires ha ottenuto i soldi «grazie a una normale transazione economica tra parti consenzienti», disciplinata da un regolare contratto di diritto britannico.

Un business che è stato favorito – come segnalato da chi vi scrive e come confermato dalla corte di Southwark – nientemeno che dal sostituto Edgar Peña Parra e dal segretario di Stato Pietro Parolin, cioè il numero tre e il numero due nella scala gerarchica della Chiesa cattolica.

Cauzione all’americana

Dal documento, che critica il Vaticano anche per aver «travisato» i fatti inviando al tribunale dichiarazioni «non veritiere» e «parziali», emergono anche circostanze finora sconosciute. «Il signor Torzi è stato arrestato dalle autorità del Vaticano a seguito di un colloquio che ha avuto luogo il 5 giugno 2020, e rilasciato, sotto pagamento di cauzione, il 15 giugno 2020», si legge. Il fatto non era noto. Anzi, il comunicato ufficiale della Santa sede annunciando «la concessione della libertà provvisoria» chiariva che i promotori Gian Piero Milano e Alessandro Diddi prendevano «atto di quanto dedotto in un’articolata memoria consegnata dal signor Torzi e dei numerosi documenti allegati, giudicati utili ai fini della ricostruzione dei fatti oggetto delle indagini». Insomma, si lasciava intendere che il detenuto era stato rilasciato perché aveva collaborato, non certo perché aveva pagato una cauzione milionaria. Un altro documento della procura chiarisce meglio i dettagli della vicenda: «Con dichiarazione presentata in data odierna (15 giugno 2020) dai suoi difensori, Gianluigi Torzi ha altresì autorizzato questo ufficio a richiedere all’Autorità Giudiziaria elvetica il trasferimento delle somme vincolate in misura pari a euro 2.800.000 sul conto dedicato di questa Autorità Giudiziaria presso l’Ior».

L’intento dei collaboratori di Bergoglio, forse, era quello di recuperare il prima possibile parte del presunto maltolto, che Peña Parra aveva bonificato a Torzi a maggio 2019 come contropartita per la restituzione delle quote della società che lui stesso gli aveva assegnato. Obiettivo fallito: dopo aver bussato alla porta della banca elvetica i funzionari del papa hanno capito che la garanzia firmata da Torzi era carta straccia, visto che i titolari dei conti in questione erano parenti e trust off-shore e i depositi non erano dunque aggredibili.

Ora, dopo la sentenza londinese, la storia dell’arresto potrebbe creare ulteriori problemi visto che la Santa sede – seguendo la logica del giudice inglese – potrebbe aver fermato senza motivo un cittadino italiano con cui aveva fatto una «normale transazione economica». Chiedendogli poi indietro, in cambio della libertà, parte del pagamento di una mediazione che la corte londinese valuta del tutto legittima. Paradossalmente Torzi potrebbe chiedere danni morali e reputazionali per milioni di euro: non è impossibile che in Gran Bretagna trovi giudici che concordino con lui. Non è tutto. Quando hanno letto la sentenza i promotori sono sbiancati. Così il professor Diddi ha spedito tre lettere il 16, 17 e 20 marzo 2021, dove si invitava Baumgartner a non rendere pubblico il severo dispositivo.

«Non pubblicare»

Per quale motivo? «Le indagini dei processi subirebbero un pregiudizio, e la divulgazione avrebbe ripercussioni sulla cooperazione di altri paesi stranieri» ha scritto il promotore per convincere il collega inglese a tenere segreto il documento con cui si assolve Torzi. Inoltre «altri soggetti coinvolti nell’indagine sono stati informati. Potrebbero acquisire il vantaggio di venire a conoscenza dell’andamento» delle stesse.

Anche l’altro sconfitto, il procuratore Timothy Hannam QC che chiedeva di confermare il blocco dei conti di Torzi, ha chiesto l’assoluto riserbo: la pubblicazione del fascicolo scatenerebbe «l’interesse dei media italiani e della stampa cattolica», che «potrebbe avere un effetto sull’equità del procedimento contro il signor Torzi e contro gli altri indagati», in primis monsignor Alberto Perlasca, monsignor Mauro Carlino, Fabrizio Tirabassi e il banchiere Enrico Crasso. Sugli ultimi due, ha aggiunto Hannam, esiste poi un rischio reputazionale, dal momento che il broker ha lanciato contro di loro «accuse scandalose» riportate nella sentenza. Dove in effetti si legge che, secondo Torzi, il 18 dicembre 2018, Crasso e Tirabassi in un incontro al Bulgari Hotel di Londra lo hanno minacciato, dicendogli: «O rinunci alla proprietà (di Sloane Avenue ndr) o la tua vita e quella dei tuoi figli è a rischio». Accuse gravissime che per ora non hanno avuto riscontro.

Giustizia aperta

Baumgartner ha ascoltato le suppliche, ma il 24 marzo ha firmato un decreto con cui respingeva tutte richieste di secretazione. «Per quanto riguarda il timore di un pregiudizio per il signor Torzi in qualsiasi processo che potrebbe affrontare in Vaticano, non vedo come possa essere vero. Inoltre non ho molti dubbi che un tribunale di fatto professionale non terrebbe alcun conto delle notizie non corrette o imprecise dei media» ha chiosato il giudice.

Anche la circostanza che le norme pontificie obblighino alla riservatezza non è concludente: siamo infatti a Londra, non a Roma. «Che un’indagine sia confidenziale in un’altra giurisdizione ha un rilievo nella mia coscienza ma non si adatta al principio della “giustizia aperta”», cioè trasparente nei confronti dell’opinione pubblica. Principio centrale nella culla del diritto anglosassone.

Il Vaticano è abituato a processi “domestici” e a un’assoluta discrezionalità sulle notizie da diffondere o nascondere. Ma ormai Oltretevere hanno capito che fuori le sacre mura la giustizia funziona molto diversamente. E l’esito finale dell’inchiesta più importante degli ultimi trent’anni rischia di essere meno banale di quanto immaginato.

 

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