C’è una sentenza di 42 pagine firmata da un giudice della corona inglese che ha irritato molto papa Francesco, e che rischia di fare cadere presto qualche testa Oltretevere. Perché il decreto firmato da Walter Baumgartner non solo fa letteralmente a pezzi una parte dell’inchiesta vaticana sul palazzo di Sloane Avenue comprato dalla Segreteria di Stato con i soldi dell’Obolo di San Pietro. Ma mette in discussione l’intera operazione giudiziaria su cui il pontefice ha puntato molto, e che sta invece creando più imbarazzi di quanto inizialmente immaginato.

È noto che per i promotori di giustizia guidati da Alessandro Diddi e Gian Piero Milano il Vaticano sia stato vittima di una grande truffa ordita da prelati corrotti, funzionari infedeli e finanzieri, in primis Raffaele Mincione e Gianluigi Torzi. Frode che avrebbero causato un buco di circa 100 milioni di euro nelle casse del dicastero guidato dal cardinale Pietro Parolin.

La corte londinese, invece, sembra pensarla diversamente. Il dispositivo ha ordinato prima di dissequestrare alcuni conti correnti di una società inglese di Torzi perché non ritiene «ci sia ragionevole motivo di credere che il signor Torzi abbia beneficiato di condotte criminali». Poi, entrando verticalmente nel merito della vicenda, ha sconfessato parte delle tesi dell’accusa, scardinando l’impianto probatorio dei magistrati del papa, che accusano il broker (finito anche nelle prigioni pontifice un anno fa) di estorsione, appropriazione indebita, frode e riciclaggio. Reato quest’ultimo per cui Torzi è stato iscritto nel registro degli indagati anche dalla procura di Roma.

La bocciatura appare eclatante anche a causa dei toni e delle parole usate, visto che per il giudice della regina Elisabetta le dichiarazioni inviategli dalla Santa Sede per contrastare il ricorso di Torzi sono risultate spesso «parziali», a volte «non veritiere» e foriere in qualche caso di un possibile «travisamento» dei fatti.

Accuse e difese

Andiamo con ordine. Per Diddi e Milano, nel 2019 il finanziere dai natali molisani avrebbe ottenuto indebitamente 15 milioni di euro al numero due del Palazzo Apostolico Edgar Peña Parra. Una fee estorta con il ricatto, l’unico modo con cui il Vaticano è riuscito a riprendere il controllo dell’immobile di lusso.

Per la corte di Londra la ricostruzione vaticana non regge. In primis, non ci sarebbe alcuna prova che Torzi abbia partecipato ad una «congiura» con Mincione e gli altri indagati «iniziata già nel 2014». Inoltre, la Santa Sede nei documenti mandati al giudice inglese avrebbe messo l’accento sulla enorme differenza tra quanto sborsato dal Vaticano (350 milioni di euro complessivi) e quanto speso da Mincione (appena 129 milioni di sterline) per il medesimo palazzo. Ma dimenticandosi di citare «la valutazione della società di consulenza immobiliare Strutt & Parker...che nel 2017 valutava la proprietà di Chelsea 275 milioni di sterline». Anche «la mancata menzione da parte dell’ufficio del promotore di giustizia dell’ottenimento del permesso di pianificazione» è considerata un’omissione importante dal giudice della corona.

La sentenza va oltre. E segnala che Torzi non avrebbe ottenuto i 15 milioni «in modo segreto e disonesto», come sostenuto dai promotori, ma grazie a una normale «transazione economica». Il contratto inglese firmato dal rappresentante di Mincione, da Torzi e dal monsignor Perlasca il 22 novembre 2018 sarebbe infatti perfettamente valido. «Questi documenti parlano da soli: è chiaro che la Segreteria di Stato stava acquisendo azioni che gli davano la maggioranza, ma senza diritto di voto. È difficile vedere come questa assegnazione fosse “segreta e disonesta” come sostiene l’ufficio dei promotori di giustizia». Secondo questi ultimi, però, Perlasca «sarebbe “un incapace e un inetto”. Può essere vero, ma agire come cospiratore (in combutta con Torzi, ndr) è un’altra cosa».

Le colpe dei capi

Il giudice si sofferma poi su alcuni aspetti già evidenziati da alcune inchieste di Domani: il Vaticano, severissimo con alcuni prelati caduti in disgrazia, ha lasciato ai margini dell’inchiesta i vertici della Segreteria di Stato, come il fedelissimo del papa Peña Parra e lo stesso Parolin. Quest’ultimo, segnala la sentenza, avrebbe dato in prima persona il beneplacet al business con Torzi: in una lettera allegata agli atti della sentenza inglese, in effetti, proprio il Segretario di Stato si dice «favorevole alla conclusione del contratto».

Pubblicando una procura del Sostituto in cui vengono dati pieni “poteri di firma” a Perlasca, il giudice Baumgartner spiega pure di «trovare difficile accettare l’ipotesi che Peña Parra abbia firmato tale documento senza aver letto bene i documenti che ha autorizzato Perlasca a firmare, data l’apparente importanza dell’operazione e le notevoli somme di denaro in gioco». Anche perché «il professor avvocato Diddi non suggerisce che l’arcivescovo Peña Parra facesse parte della cospirazione, né che fosse anche incapace e negligente nel modo in cui egli asserisce che lo fosse monsignor Perlasca».

Insomma delle due l’una: o anche il Sostituto è inabile al ruolo affidatogli da Francesco, o se c’è stato un complotto non può rimanere fuori dall’investigazione che ha già travolto il suo predecessore Angelo Becciu, le cui condotte avrebbero finanziariamente creato – a leggere le carte stesse dell’accusa – danni assai meno gravi di quanto provocati dal presule venezuelano.

Torzi, che dice di non aver mai visto Becciu in vita sua, è stato infatti chiamato proprio da Peña Parra: è l’arcivescovo che decide, appena promosso nei suoi nuovi uffici, di comprare tutte le quote del palazzo e di far uscire Mincione dagli affari vaticani in dieci giorni, pagandogli una fee di 40 milioni di euro formalizzati dallo stesso contratto che incoronava Torzi nuovo gestore dell’immobile.

L’accordo per il pagamento da girare al molisano era invece solo verbale. Eppure la corte avverte dell’esistenza di un memorandum di Tirabassi, funzionario del Palazzo Apostolico indagato per corruzione, per lo stesso cardinale Parolin. Lì si chiarisce come la Segreteria «si è impegnata verbalmente a pagare» a Torzi una commissione «del 3 per cento del valore della proprietà». Una cifra equivalente «alla data della firma dell’accordo quadro», si legge nella sentenza, «a poco più di 9 milioni di euro».

Volpi e polli

Quali sono i motivi che inducono il Vaticano a liberarsi di Torzi un minuto dopo l’accordo-quadro con cui lo tirano a bordo è difficile dirlo. Fatto sta che da metà dicembre 2018 comincia una trattativa serrata per ottenere indietro le quote Gutt lasciate in mano al broker, che pretende però di essere saldato. Per il lavoro svolto e per i mancati guadagni causati dalla sua defenestrazione.

L’intesa si trova, e Torzi viene pagato con due bonifici per un totale di 15 milioni di euro. Secondo la sentenza londinese legittimamente, e senza alcun ricatto di sorta. «È evidente dalle mail di Peña Parra che ciò che traspariva era una trattativa commerciale tra due parti indipendenti», dice il giudice. Se si era in presenza di un’estorsione, aggiunge la corte, come mai Torzi non è stato denunciato dal Vaticano alle autorità competenti? «I promotori di giustizia hanno detto che la Segreteria di stato voleva evitare di esporsi allo scandalo. Può essere, ma non trovo la spiegazione convincente per le ragioni di cui sopra» conclude Baumgartner.

Anche perché almeno la prima fattura da 5 milioni «è stata espressamente autorizzata da Peña Parra, dopo che l’autorità di informazione finanziaria aveva sollevato le sue preoccupazioni. Se ciò che dice l’ufficio dei promotori sul ricatto, dato che i pagamenti sono stati effettuati può darsi che Peña Parra e la segreteria di Stato abbiano ingannato l’Aif sulla natura dei pagamenti stessi. Dubito che l’avrebbero fatto, il che mi conduce a mettere ulteriormente in dubbio le affermazioni dei promotori». Che, va ricordato, hanno messo sotto indagine anche il vecchio direttore dell’Aif Tommaso Di Ruzza, considerato presunto complice di Torzi nonostante Di Ruzza stesso – come specifica la corte di Southwork – avesse segnalato i rischi del pagamento ai suoi superiori. Cioè ai vertici della Segreteria.

La sentenza non riguarda le ipotesi di reato coltivate in Vaticano, ma solo la legittimità di un sequestro. Tuttavia, potrebbe avere conseguenze importanti anche sull’inchiesta vaticana e italiana. Il dilemma giuridico, in mancanza di prove corruttive schiaccianti, è infatti stato fin da principio il medesimo: le volpi sono entrate nel pollaio forzando la porta o sono state fatte entrare dai monsignori con tutti gli onori della casa? La corte di Londra, la prima a esprimersi sul pasticcio, sembra propendere per la seconda possibilità.​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​

 

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