Giuseppe Maria Milanese, chi era costui? Il presidente di una grande cooperativa che aiuta i disabili o uno dei grandi protagonisti dello scandalo finanziario che sta terremotando la Santa sede? A leggere le carte inedite dell’inchiesta dei magistrati del papa, gli inquirenti sembrerebbero non avere dubbi: «Milanese è la figura che unisce tutti gli attori coinvolti in questa vicenda», scrivono in una rogatoria i promotori di Giustizia. «Godendo della fiducia del Santo Padre, ha introdotto in Vaticano persone a lui vicine, anche con precedenti penali». Per i pm Gian Piero Milano e Alessandro Diddi sarebbe stato infatti Milanese a far entrare il finanziere Gianluigi Torzi (indagato per estorsione e riciclaggio) nelle grazie della segreteria di Stato, e successivamente nel disastroso business del palazzo londinese. È ancora Milanese, si legge nel documento, l’uomo che farebbe affari poco chiari con altri indagati eccellenti, e l’imprenditore che vince appalti d’oro all’ospedale Bambino Gesù grazie a presunte raccomandazioni.

Le accuse sono devastanti, e destano ora più di un imbarazzo. Non solo perché il professionista originario di Mesagne, secondo un documento redatto da Tirabassi e citato nella rogatoria (senza peraltro ulteriori evidenze), sarebbe sospettato addirittura «di forti legami con ambienti e persone della camorra pugliese». Ma perché la denuncia travolge un amico fidato di Francesco, che stima il lavoro di Milanese e quello della sua associazione, tanto che negli anni gli incontri ufficiali e informali tra i due non si contano, con tanto di foto e video a dimostrarlo. Possibile che il papa si sia fidato della persona sbagliata? O gli investigatori hanno invece preso un granchio colossale?

Le contestazioni all’imprenditore (che non risulta indagato né in Vaticano né alla procura di Roma) sono molte. Nel mirino sono finiti innanzitutto i rapporti con Torzi e il suo socio, Manuele Intendente, soggetti che secondo i magistrati avrebbero causato con l’operazione inglese un buco «da oltre 100 milioni di euro» nelle casse della segreteria di Stato. L’accusa dei pm è che sarebbe stato proprio Milanese ad aprire loro le porte del Vaticano.

Varie operazioni sospette

Anche il Sostituto Edgar Peña Parra sostiene la stessa tesi: in una lettera finora inedita spedita il 22 marzo 2019 all’Autorità di informazione finanziaria (e sequestrata nelle perquisizioni di un anno fa) il monsignore evidenziava non solo come «nel mese di novembre 2018 la segreteria di Stato decideva di procedere al disinvestimento totale delle quote» del fondo di Mincione «con l’obiettivo di focalizzare l’investimento esclusivamente» sul palazzo di Sloane Avenue 60, ma pure di volersi affidare «al dottor Gianluigi Torzi, presentato dalla segreteria di Stato per il tramite dell’avvocato Manuele Intendente di Ernst&Young e del professor Renato Giovannini, rettore vicario dell’Università degli studi “Guglielmo Marconi”, a loro volta introdotti dal dottor Giuseppe Milanese e dal signor Andrea Falcioni, entrambi conosciuti in Vaticano». Una ricostruzione clamorosa, visto che Peña Parra di fatto spiega all’antiriciclaggio di essersi fidato di Torzi per i buoni uffici che il broker vantava con l’amico di Francesco.

Oltre al presunto sodalizio con il presunto «estortore» (smentito da Milanese nell’intervista a fondo pagina) i magistrati puntano il dito su varie operazioni del presidente di Osa. In primis segnalano che nel 2016 la cooperativa avrebbe emesso un prestito azionario «per un importo complessivo di 9,9 milioni di euro», sottoscritto tra gli altri dalla «Segreteria di Stato per una quota di 2,3 milioni di euro». Un affare avvenuto anche con l’intervento di «monsignor Mauro Carlino (indagato, ndr) a cui era stato proposto inizialmente un investimento a titolo personale, di Fabrizio Tirabassi (indagato, ndr), che risulta in rapporti con Milanese fin dal 2015, e di Enrico Crasso». Nelle carte spunta pure una bozza di contratto di consulenza tra Osa e Tirabassi del 2017 («L’oggetto dell’incarico è molto generico, “messa a disposizione del know how”...non è possibile sapere se effettivamente sia stato sottoscritto») e la prova di un accordo commerciale tra Milanese e la società Sogenel di Crasso, con una commissione finale da 40mila euro a favore del banchiere.

Altri contributi

Milanese – dice la rogatoria – avrebbe provato poi ad imbastire un’operazione simile anche con Torzi: «Nel novembre 2018, a cavallo dell’operazione Gutt Sa, la Osa conferisce un incarico di consulenza alla Sunset Credit Yield di Torzi e Luciano Capaldo», scrivono i promotori spiegando che a loro parere Milanese stava tentando di vendere «un portafoglio di crediti» della cooperativa pari a 24 milioni di euro. L’affare alla fine però saltò.

La rogatoria segnala che Osa di Milanese, oltre a beneficiare dei 2,3 milioni ottenuti dal Vaticano per i suoi bond, ha avuto altri «contributi erogati direttamente dal conto Apsa della segreteria di Stato per 350mila euro». Si tratta di soldi prelevati dal fondo riservati dell’Obolo di San Pietro, lo stesso da cui il cardinale Angelo Becciu, licenziato due settimane fa dal papa, ha attinto per girare 100mila euro alla Caritas della diocesi di Ozieri. Denaro destinato, secondo l’accusa, alla cooperativa del fratello Tonino.

L’ultimo sospetto riguarda un appalto da ben 23,3 milioni che la cooperativa di Milanese avrebbe ottenuto dal Bambino Gesù: l’ipotesi dei due pm è che Tirabassi e Milanese si fossero attivati per piazzare al nosocomio guidato da Marinella Enoc tal Stefano Calamelli, dal 2018 «direttore L.A.P. e Convenzioni area sanitaria, funzione apparentemente creata ad hoc. Allo stato delle indagini», chiosano, «non è stato possibile verificare se Calamelli abbia in qualche modo potuto aiutare Osa a vincere questo appalto». Scenari tutti da verificare, anche perché la sfilza di accuse non sembra abbia retto a tre interrogatori avvenuti lo scorso aprile, nei quali Milanese ha provato a demolire le imputazioni a suo carico: gli avvocati di Milanese si dicono oggi sereni, mentre fonti vicino alla gendarmeria spiegano che le responsabilità dell’amico del papa non «sarebbero affatto così gravi» come segnalato nella rogatoria. Insomma il beniamino del papa potrebbe presto uscire dall’inchiesta. «Speriamo solo – chiosano i legali di altri indagati eccellenti – che gli inquirenti usino stessi pesi e misure. E non si faccia a chi figli e chi figliastri».

 

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