Dici Genova G8 e pensi alle cariche ai cortei, all'omicidio di Carlo Giuliani, alle torture nella scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto, alla Costituzione e alle sue garanzie che vengono messe da parte per alcuni giorni. Ma le giornate di Genova del luglio 2001 furono anche molto altro. Segnarono l'irruzione sulla scena pubblica europea di un movimento che proponeva la prima importante, organica critica alla globalizzazione neoliberista. Un movimento che metteva in campo una nuova "visione del mondo", tuttora attuale nelle sue grandi linee, in un pianeta nel quale le disuguaglianze, le ingiustizie, le distruzioni degli ecosistemi sono cresciute negli ultimi vent'anni.
Il G8 di Genova ha segnato un passaggio chiave nella nostra storia recente: da un lato ha creato un inquietante precedente di sospensione della democrazia, dall'altro lato ha rappresentato un'occasione mancata, perché le molte buone ragioni del movimento furono non solo ignorate ma addirittura criminalizzate. Sono ragioni in larga parte ancora attuali: non è azzardato affermare che stiamo ancora pagando il prezzo dell'esclusione dal discorso pubblico di quel punto di vista sul mondo, con le sue analisi, la sua progettualità.

«Un altro mondo è possibile»

Nato negli anni Novanta, cresciuto nelle lotte contro lo strapotere delle grandi corporation e di organizzazioni sovranazionali sottratte al controllo democratico dei cittadini, il movimento per la giustizia globale si presentò a Genova avendo alle spalle la cosiddetta "battaglia di Seattle", un grande sit in di denuncia e protesta, alla fine del '99, durante una riunione dell'Organizzazione mondiale del commercio, e soprattutto il primo Forum sociale mondiale di Porto Alegre, del gennaio 2001. Il Forum, che adottò lo slogan “Un altro mondo è possibile”, si proponeva come un'alternativa al "pensiero unico" neoliberista; era una risposta alla famosa formula di Margaret Thatcher, la premier britannica paladina a cavallo fra anni '80 e '90 del "nuovo corso" neoliberista: "There is no alternative", diceva, non ci sono alternative.
Si arrivò dunque a Genova con queste credenziali e sullo slancio di una mobilitazione impetuosa. Il Genoa social forum, promotore delle iniziative durante il vertice degli “otto grandi”, raccoglieva più di mille organizzazioni nazionali e internazionali: una rete che includeva un arco di culture, esperienze e appartenenze di inconsueta varietà. Come si disse in quei giorni, si andava dalle suore missionarie e dai monaci buddisti riuniti negli incontri ecumenici nel borgo di Boccadasse, agli attivisti dei centri sociali accampati allo stadio Carlini, passando per una miriade di associazioni e organizzazioni unite dalla comune ricerca di un nuovo ordine globale: più equo, più democratico, meno distruttivo, capace di accantonare la nozione di sviluppo ereditata del '900, rivelatasi alla lunga incompatibile con le esigenze vitali del pianeta e dei suoi abitanti.
La cifra del movimento era la competenza, maturata in innumerevoli esperienze sul campo e su scala globale, che si trattasse di cooperazione internazionale, di sindacalismo di base, di economie solidali, di movimenti contadini e indigeni... Le contestazioni genovesi al G8 durarono una settimana e si snodarono nel fitto programma del Public forum, una lunga serie di convegni, seminari e piazze tematiche che precedettero e accompagnarono i cortei e le manifestazioni di piazza. Ripercorrere l'agenda del Public forum, riascoltare le parole di quei giorni, può risultare spiazzante: non sembrano trascorsi vent'anni. Prendiamo per esempio Walden Bello, accademico e attivista filippino: nel suo intervento criticava la finanziarizzazione fuori controllo dell'economia e preconizzava un prossimo crac delle borse. Un crac puntualmente avvenuto fra 2007 e 2008. Il surriscaldamento del pianeta, coi processi di desertificazione ben visibili in varie parti del mondo, era al centro della forte critica al modello di sviluppo dominante, ben prima che gli scienziati dell'Ipcc ricevessero il Nobel per la pace (nel 2007) per i loro rapporti sui cambiamenti climatici o che prendesse forma il cosiddetto Accordo di Parigi (2015). Uno di noi due, Vittorio Agnoletto, all'epoca presidente della Lila (Lega italiana per la lotta contro l'Aids) oltre che portavoce del Gsf, e Nicoletta Dentico, in quei giorni alla guida della sezione italiana di Medici senza frontiere, denunciavano il dominio di Big Pharma e la proprietà intellettuale dei brevetti come impedimenti alla tutela della salute su scala globale. Temi che risuonano attuali in piena pandemia di Covid-19: l'accesso ai farmaci e ai vaccini è di fatto negato a una quota maggioritaria della popolazione mondiale. E ancora, si parlava della necessità di considerare l'accesso all'acqua potabile un diritto umano e di sottrarre le risorse idriche - in quanto bene comune - alle logiche del profitto e della speculazione: oggi, all'opposto, si è arrivati alla quotazione in borsa dei future sui diritti di estrazione idrica, ma in più parti del pianeta sono in corso pericolosi conflitti sociali e anche politico-diplomatici sullo sfruttamento di falde e sorgenti, sul corso di fiumi, sulla costruzione di invasi. E non si può dimenticare, pensando ai sette giorni del Public forum, il corteo dei migranti del 19 luglio 2001: una manifestazione che rivendicava il diritto alla mobilità e individuava un punto di frattura fra i processi di globalizzazione economica e la dottrina dei diritti umani, una contraddizione che sarebbe esplosa negli anni seguenti e che ha messo in crisi le democrazie occidentali, arrivate - fra muri, respingimenti, campi di detenzione e il mare Mediterraneo trasformato in cimitero – a negare uno dei propri princìpi fondativi, la tutela della dignità di ogni vita umana.

Repressione e rifiuto

Insomma, le parole di Genova ci parlano ancora, in un contesto globale che pure è mutato in molti suoi aspetti. Oggi possiamo dire che quelle parole non furono ascoltate perché il sistema politico e mediatico le rifiutò. Il movimento per la giustizia globale - impropriamente definito "no global" - fu accolto con diffidenza e ricondotto a vecchi stereotipi: fu considerato di volta in volta eversivo, violento, irragionevole, inattuale. Nei mesi precedenti le mobilitazioni genovesi, il movimento fu presentato come una minaccia per l'ordine pubblico. Furono diffuse voci di ogni tipo. Si disse e si scrisse che i manifestanti avrebbero rapito gruppi di agenti, che avrebbero lanciato sangue infetto, che si preparavano attacchi dal mare... Si arrivò al G8 in un clima di grande tensione, ma furono le forze dell'ordine a prendere la scena: come affermato da Amnesty International, Genova fu teatro di «una violazione dei diritti umani di proporzioni mai viste in Europa nella storia più recente».
Andrea Camilleri, nella prefazione alla prima edizione del nostro libro “L'eclisse della democrazia” (appena ripubblicato da Feltrinelli in un'edizione aggiornata e ampliata), definì quei giorni una «prova di tensione»: un test per valutare fin dove si potesse arrivare nella negazione dei diritti fondamentali mantenendo il controllo del potere. Quasi un colpo di stato. Sono passati vent'anni e i risultati di quel test fanno parte della storia d'Italia. Un ragazzo fu ucciso con un colpo di pistola sparato da un carabiniere, centinaia di persone furono torturate, migliaia di pacifici manifestanti subirono aggressioni ingiustificate da parte delle forze dell'ordine, che furono prodighe di violenze e di false attestazioni del proprio comportamento. Ma nessuno, ai vertici dello stato, ha mai davvero ripudiato quelle condotte e preso provvedimenti conseguenti, come le dimissioni dai propri ruoli di comando e la rimozione dei responsabili degli abusi più gravi. Nessuno si è mai davvero scusato. Ci sono stati dei processi e alcune importanti condanne sono state inflitte, ma l'Italia è stata condannata a più riprese - anche per i processi che ha portato a termine, quelli per le torture alla scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto - dalla Corte europea per i diritti umani. Vera giustizia non è stata fatta.

Viviamo una stagione di potenziali grandi cambiamenti e altrettanto grandi possibili conflitti. Durante i mesi di confinamento sanitario, si è detto giustamente che non possiamo tornare alla normalità perché la normalità è il problema. Il “sistema” si sta però  riorganizzando per tornare al “business as usual”, proponendo le sue solite parole d'ordine -  ripresa, crescita, sviluppo, profitto -  appena ingentilite con una sbiadita pennellata di verde. Una sfida è dunque aperta e nuovi movimenti potranno riprendere la scena, facendo anche tesoro delle molte “parole di Genova” che sono ancora attuali. La dura lezione dell'estate 2001 non va però dimenticata: quando la sfida politica è alta, quando un movimento popolare guadagna consenso e mette davvero in discussione lo status quo, le democrazie sono pronte ad accantonare lo stato di diritto. E' accaduto in Italia, può accadere di nuovo.  

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