Il vero «sogno verde, o quello che è» – per prendere in prestito l’espressione di Nancy Pelosi – è credere che il falso green new deal funzionerà. Un argomento semplice struttura questo libro: un Green New Deal efficace non può che essere un Green New Deal radicale.

Quando parliamo di un Green New Deal radicale non intendiamo una posizione estremistica. Il nostro termine «radicale» deriva dal latino radix, che significa «radi- ce»: un cambiamento radicale è un cambiamento sistemico che affronta le cause alla radice dei problemi piuttosto che occuparsi semplicemente dei loro sintomi.

È davvero un obiettivo troppo ambizioso per cui combattere negli Stati Uniti? Noi condividiamo la dichiarazione fatta da Ocasio-Cortez su 60 Minutes: «Sono state sempre le personalità e i movimenti radicali a cambiare questo paese». Pensiamo che un Green New Deal radicale sarebbe anche un Green New Deal popolare. Aspiriamo a costruire una politica climatica per il 99% della gente, cioè per le masse popolari e multirazziali, contrapposte a una ristretta élite, che chiedono giustizia per tutti in un pianeta vivibile.

Più concretamente, che cosa vuol dire andare alla radice del cambiamento climatico?

In primo luogo, noi prendiamo la scienza sul serio e fissiamo i nostri obiettivi politici di conseguenza. La logica, propria del falso green new deal, di obiettivi più graduali per un cambiamento più lento, di fatto accetta un riscaldamento globale di 3°C, implicando così rischi ancora maggiori se le ripercussioni climatiche si manifestano rapidamente.

Il nostro obiettivo è un tetto massimo di 2°C di riscaldamento globale, puntando ad avvicinarci il più possibile al limite di 1,5°C. Inoltre, mentre il falso green new deal si serve di incentivi fiscali e segnali di prezzo (un’informazione trasmessa ai consumatori e ai produttori, tramite il prezzo addebitato per un prodotto o servizio, che fornisce un segnale per aumentare o diminuire la quantità offerta o la quantità richiesta, ndr) quali sue leve economiche, il Green New Deal radicale si avvarrebbe del potere dell’investimento e del coordinamento pubblici per dare massima priorità a una decarbonizzazione adeguata alla velocità, alla portata e all’ampiezza delle sfide climatiche.

E mentre il falso green new deal si focalizza a malapena sul sostituire qualche combustibile fossile con energia «pulita», noi vediamo la questione energetica come interconnessa con sistemi materiali più ampi e con le disuguaglianze sociali. Un Green New Deal radicale affronta le inevitabili intersezioni tra politica sociale, economica e ambientale e assume l’uguaglianza come priorità.

Infine, il finto green new deal vede la portata e l’ambizione di un Green New Deal radicale come non conveniente dal punto di vista politico. Il finto green new deal cerca di raggiungere il cambiamento attraverso la massimizzazione del consenso delle élite e l’elaborazione di politiche nell’ombra. All’opposto, noi vediamo l’ampliamento della politica climatica come un vantaggio politico: si tratta di un’opportunità per costruire un sostegno maggioritario a favore di un cambiamento ampio e sostanziale e mobilitare energie politiche per rompere lo status quo. Cerchiamo di spiegarlo in maniera più approfondita.

Evitare il collasso

Partiamo dalla nostra priorità principale: evitare il collasso climatico. Non conosciamo con esattezza il grado di sensibilità del sistema climatico. Elaborare piani che puntano a un riscaldamento globale di 2,5° o 3°C, come implicitamente fa il gradualismo del finto green new deal, vuol dire accettare impatti devastanti nei paesi del Sud globale e rischiare di arrivare a un apocalittico 4,5°C. Perciò noi miriamo direttamente a un 1,5°C. Meglio mancare di pochi anni un piano massiccio di decarbonizzazione del settore energetico al 2030, piuttosto che mancare un obiettivo più lento e modesto al 2040, fallire il quale produrrebbe conseguenze più gravi.

Per quanto negli Stati Uniti si sta assistendo a fenomeni meteorologici sempre più devastanti, nel breve termine sono i paesi africani e asiatici a subire l’impatto maggiore di un riscaldamento globale di 3°C. Non siamo disposti a lasciare che ciò accada giusto per agevolare la vita a Exxon Mobil e a Wall Street. E siamo più allarmati per il bilancio delle emissioni che per il deficit di bilancio. Il nostro assunto di base è il consenso scientifico sul fatto che il decennio in corso richiederà, come sostiene un recente saggio appar- so su «Science», sforzi «erculei» di trasformazione dell’economia15. Cambiamenti di tale portata non sono la specialità dei mercati. Per abbattere rapidamente le emissioni climalteranti, dobbiamo assumere il controllo pubblico e, soprattutto, democratico di gran parte del- l’economia affinché un’azione per il clima socialmente equa sia messa al primo posto.

Ricordiamocelo: i capitalisti investono in progetti allo scopo di fare profitti e consolidare il loro potere, non per rendere il mondo un posto migliore. Se quest’ultima cosa si verifica, si tratta di un fortunato quanto eccezionale effetto collaterale. Anche se alcuni manager aziendali si preoccupano per il mondo che attende i loro nipoti, non sacrificheranno mai i pro- fitti per abbattere le emissioni climalteranti. Se lo facessero, gli azionisti li rimpiazzerebbero.

Il falso green new deal

Il falso green new deal cerca di indirizzare gli investi- menti capitalistici per il miglioramento del clima principalmente verso finanziamenti in ricerca e sviluppo, blande sovvenzioni e la tassazione delle emissioni di CO2. I suoi fautori vedono una carbon tax come il motore principale per orientare il settore privato verso investi- menti a minor impatto in termini di emissioni e incentivare sia le aziende sia i consumatori alla decarbonizzazione. Intendono inoltre dare priorità alla ricerca e allo sviluppo di nuove tecnologie, come la produzione su vasta scala di energia geotermica, alle alternative alle proteine animali e alla cattura diretta della CO2 dall’aria. Siamo d’accordo riguardo al potenziamento della ricerca e sviluppo. Ma questo non può in alcun modo sostituirsi a una forte accelerazione dello spiegamento del- l’eccellente tecnologia pulita di cui già disponiamo.

Appoggiamo anche una carbon tax progressiva, con una riduzione per le persone a basso e medio reddito. Una modesta tassa sulle emissioni può contribuire a eliminare il carbone, la cui industria è già in forte crisi. Se ben concepita, può contribuire ad allontanare le persone dal consumo di prodotti ad alta intensità di CO2, incoraggiandoci a spendere il nostro denaro supplementare in lezioni di ballo invece che in un nuovo iPad, e può incentivare le agenzie governative e le aziende a pianifica- re investimenti a lungo termine che tengano conto dei cambiamenti climatici.

Ma la tassazione delle emissioni è uno strumento secondario, un complemento delle nostre leve principali che sono la spesa pubblica, il coordinamento e la regolamentazione pubblici, tutte volte a migliorare il tenore di vita generale. Senza delle alternative a emissioni zero accessibili, aumentare il prezzo del gas causerà soltanto un enorme contraccolpo politico. Tassare le emissioni è anche una strategia curiosamente indiretta per un cambiamento rapido. Come ha ironiz- zato il giornalista David Roberts, durante una conferenza a Philadelphia nel 2018, gli Stati Uniti non sconfissero i nazisti tassando le fabbriche che non producevano aerei e carri armati per lo sforzo bellico.

Affinché gli Stati Uniti raggiungano un livello netto di emissioni climalteranti pari a zero nel settore energetico entro la metà dei prossimi anni Trenta, il paese deve sviluppare nuova energia pulita a una velocità almeno dieci volte superiore a quella degli ultimi anni. Unitamente a ciò, occorrono investimenti pubblici nel ripristino degli ecosistemi, in infrastrutture ecocompatibili e in lavori di manutenzione. Si tratta di misure che richiederebbero un’enorme quantità di lavoro e quindi creerebbero milioni di posti di lavoro ecosostenibile di alta qualità. Semplicemente non esistono precedenti in cui il settore privato si sia mobilitato in modo così ampio e rapido. Con il sostegno dello Stato, i capitalisti green hanno sviluppato tecnologie per la produzione di energia pulita a basso costo ed efficaci. Ma se è vero che le aziende solari possono gradualmente sbaragliare il carbone, esse non possono promulgare leggi che lo aboliscano o trasformare la rete elettrica e il sistema energetico nel suo complesso.

Nel quadro di un Green New Deal radicale, sarebbe il settore pubblico a indirizzare gli investimenti e a coordinare la produzione, similmente a quanto avvenne negli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale. Le burocrazie governative sono in grado di gestire un lavoro così complesso? Ne furono capaci settantacinque anni fa, quando lavoravano ancora con blocchetti di carta e lavagne a gessetti. Negli anni Quaranta, agenzie pubbliche improvvisate, l’esercito e imprese sovvenzionate dal governo accrebbero la produzione di macchine di sterminio a una velocità impressionante.

L’industria sostenuta dallo Stato costruì la più grande fabbrica del mondo in meno di un anno vicino a Ypsilanti, Michigan, e passò a produrre un bombardiere B-24 all’ora. Da un giorno all’altro, fabbriche di sedili per auto si riconvertirono alla produzione di paracadute e le catene di montaggio della Cadillac iniziarono a sfornare carri armati16. Ci piacerebbe avere a disposizione un’analogia diversa da quella con la Seconda guerra mondiale per un’azione pubblica di queste dimensioni e portata. Ma il punto resta: costruire – e spingere – un settore pubblico capace di organizzare una transizione rapida e giusta si può. Spesso ci si dimentica, inoltre, del fatto che le capacità amministrative dello Stato sono state sviluppate nel decennio precedente alla Seconda guerra mondiale attraverso il New Deal. I neoliberisti hanno passato poi quarant’anni a intaccare pezzo a pezzo queste capacità amministrative, indebolendo le normative e molte agenzie federali per accrescere il potere della grande impresa. Ricostruire e rinvigorire le istituzioni pubbliche è uno dei compiti più importanti che dobbiamo affrontare oggi.

Gran parte di ciò che proponiamo si chiama politica industriale.

*il brano è tratto dal libro A Planet to win. Perché abbiamo bisogno di un Green New Deal, di  Kate Aronoff, Alyssa Battistoni , Daniel Aldana Cohen e Thea Riofrancos. Con prefazione di Naomi Klein e, nell’edizione italiana, con postfazione di Maurizio Acerbo (Momo edizioni).

Il libro è il manifesto ecosocialista promosso da Bernie Sanders, Alexandria Ocasio Cortez e i Democratic Socialists Of America.

Sarà presentato domenica 26 settembre alle 16 a Roma, Scalo Playground San Lorenzo, sarà presente una degli autori Kate Aronoff, il segretario del Prc Maurizio Acerbo, e l’urbanista Paolo Berdini, candidato sindaco a Roma

© Riproduzione riservata