Ci sono due spettri che si agitano e minacciano la nostra festa. Il primo è che da un anno all’altro l’autoritarismo si è trasformato da una minaccia a un regime di governo. Il secondo riguarda invece la tentazione di strumentalizzare la Resistenza
In principio arriverà l’oltraggio, come negli ultimi 25 aprile. Sono certo che avremo di che indignarci anche stavolta. Non ho alcuna speranza che qualcuno pronunci parole senza ambiguità e sono certo che saremo di nuovo costretti a vivere le rituali contraffazioni della storia.
Del resto questo è il tempo che ci tocca vivere: mentre simpatizzare per il fascismo è lecito, professare il proprio antifascismo desta sospetto. Pochi giorni fa, per via del ricovero ospedaliero del presidente Sergio Mattarella, abbiamo avuto a capo della Stato un politico fiero delle sue indulgenze fasciste e dei suoi busti da conservare gelosamente. In fondo anche questo è un oltraggio, un oltraggio istituzionalizzato.
Preoccupazione per il futuro
Dell’oltraggio mi dispiaccio, ma non è ciò che temo davvero. Dobbiamo riconoscere che quegli oltraggi non sono più in grado di suscitare indignazione o rabbia in generazioni che hanno da masticare una disperazione concreta che lascia poco spazio per occuparsi d’altro. Le parole nuove dell’antifascismo verranno dalla sua capacità di sostituire questa disperazione con la speranza. Per questo l’oltraggio ci sarà di nuovo, ma non è quel che mi preoccupa.
È questo il punto, per me: capire se anche quest’anno sarà una ripetizione degli anni scorsi, in cui alla volgarità dell’oltraggio alla storia si accompagnava la sensazione del pericolo che ciò da cui ci siamo liberati stesse tornando. Una minaccia, ancora. Un agitar di spettri che ogni anno apparivano più cupi, più vividi, più reali. Ecco, lo stato emotivo prevalente della prossima festa della Liberazione non sarà la preoccupazione per ciò che non è ancora accaduto ma potrebbe realizzarsi da un momento all’altro.
Non è più tempo di minacce, ma di autoritarismi compiuti. È per questo che temo che il 25 aprile di quest’anno possa manifestare due spettri nuovi, che non abbiamo mai dovuto affrontare finora.
Precipizio illiberale
Il primo spettro non è responsabilità nostra. Se non perché abbiamo aspettato troppo. Abbiamo agitato il fantasma della minaccia dell’autoritarismo e ora quell’autoritarismo ha carne e ossa. Non solo in Italia, per la verità. Quel che unisce Donald Trump e Giorgia Meloni non è il reciproco complimentarsi fondato sul nulla, ma un precipizio illiberale dentro cui non rischiamo di precipitare, ma siamo già precipitati.
Questo è ciò che li unisce: un impianto securitario e repressivo che ha oltrepassato il segno e che, di fatto, non garantisce più libertà di opinione, di manifestazione, di opposizione. Che sia nelle università americane oppure nelle piazze italiane. In entrambi i casi le minacce temute negli anni scorsi sono diventate reali, si sono fatte leggi. Che cosa distingue il ddl Sicurezza da una legge liberticida? Quando si decide che la misura è tale da definire lo scivolamento verso l’autoritarismo come la fine della democrazia? Forse la misura è proprio questa: quando le minacce diventano leggi. E piano piano – evocando Bertolt Brecht – quelle leggi riguarderanno non solo le libertà degli altri – non c’è nulla di più classista di un autoritarismo ai suoi esordi – ma anche le nostre.
Strumentalizzare la Resistenza
Il secondo spettro sarà invece tutto interno alla nostra area politica. Spero di sbagliarmi, ma ho come il sospetto che vi sia quest’anno la tentazione di fare della Resistenza un pretesto per giustificare il ritorno della guerra, o anche per fare il contrario. Di iscrivere la memoria partigiana dentro una discussione tutta attuale, con una serie di contraccolpi dannosi. Innanzitutto rendendo ulteriormente divisiva una storia che festeggiamo proprio per sentirci uniti, almeno tra noi.
Se la Resistenza diventa un’occasione per dividerci anche tra noi, è evidente che l’unica a goderne sarà la destra, che ha fatto dello smembramento della memoria condivisa della liberazione uno degli obiettivi culturali più riusciti degli ultimi decenni. Poi attualizzando inopinatamente scelte e storie tragiche il cui accostamento con il presente andrebbe affidato alla cautela e all’autorevolezza del mestiere di storico.
Su una cosa credo si possa essere tutti d’accordo. Che non c’è nella Resistenza nessuna estetizzazione o culto della violenza. Se l’epos della guerra era ciò che muoveva l’ideologia fascista, la consapevolezza del tragico era ciò che muoveva il ricorso alle armi nella Resistenza. Non un tragico che umanizzava, ma che disumanizzava. Non a caso la storia degli effetti della Resistenza non è stata una storia di guerra, ma di pace.
Sia come sia, anche io – che al riguardo ho un giudizio molto netto – non cadrò nella tentazione di polemizzare e dividere. Preferisco dire una parola in meno che in più. Non abbiamo bisogno né di oltraggi né di strumentalizzazioni, soprattutto in questo momento. Può dar fastidio a molti, ma sia la Resistenza di ieri sia le guerre di oggi sono cose troppo serie per darli in pasto ai nostri narcisismi bulimici e farne argomenti dei nostri post sui social.
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