Massimo Villone, costituzionalista ed ex parlamentare, il presidente Draghi fa il governo all’insaputa dei partiti. Sbaglia?

L’art. 92 della Costituzione è una norma di grande elasticità. Quello che accade nello svolgimento di una crisi è determinato dall’art.92, dalla prassi ma anche dalla situazione politica concreta. Non vedo nessuna anomalia. Leggo che c’è chi la pensa diversamente, ma sono considerazioni da seminario di costituzionalisti.

È il fallimento della politica, i partiti sono sotto scacco?

Non c’è dubbio che questa è una crisi che poteva e doveva essere evitata. Il responsabile è Matteo Renzi che ha giocato la sua partita per sfasciare il governo. Ma per questo sarebbe sconfitta la politica? Paradossalmente è la sconfitta di Renzi, che ora conterà molto meno.

Un governo del presidente vuol dire che la politica ha perso?

Qui bisogna intendersi. Mattarella non ha fatto niente di censurabile dal punto di vista costituzionale. Aveva tre vie: rinviare Conte alle camere, ma avrebbe ottenuto un risultato peggiore della fiducia del 19 gennaio. Poteva sciogliere le camere, ma ha valutato che la pandemia sconsigliava una campagna elettorale che avrebbe azzerato l’efficacia dell’azione politica nei prossimi tre-quattro mesi. Ha scelto un mandato per un governo senza una formula predeterminata. Il “governo del presidente”, si è detto. È una formula che colpisce l’immaginario, va bene per la comunicazione, ma oltre la genesi non esiste. Con la fiducia un governo diventa del parlamento. Fin lì le forze politiche si nascondono sotto il mantello del capo dello stato, ma dopo la fiducia rimane loro la piena responsabilità: quello che si fa o non si fa sta alle forze politiche.

Votare no a Draghi non rischierebbe di “sfiduciare” Mattarella?

Resta la piena responsabilità delle forze politiche, quello che farà il governo saranno loro a determinarlo. Giorgio Napolitano era considerato un presidente molto interventista, ma se le forze politiche avessero voluto opporsi a qualche sua scelta avrebbero potuto farlo.

Draghi non sta forzando verso il premierato?

No. Se le forze politiche vorranno fare barba e capelli ai ministri, il parlamento ha tutti gli strumenti. La debolezza del parlamento non esiste, esiste la debolezza delle forze politiche. Da parlamentare ho vissuto la vicenda del ministro Filippo Mancuso. La mozione di sfiducia individuale a lui è uscita dalla mia penna. Si volle fare. Quindi: non è la politica che perde, sono le forze politiche che si assumono o no una piena responsabilità. Ma per questo bisogna esserci.

Essere nella maggioranza?

Esserci o non esserci è essenziale. È un errore chiamarsi fuori perché la compagnia non piace. No, ci devi stare, assumerti le tue responsabilità, batterti per le cose che ritieni giuste. Magari per essere sconfitto. Non so se Draghi è keynesiano o no, lo vedremo con il programma. Un’altra cosa su cui si è molto riflettuto è che Mattarella abbia dato un mandato senza una precisa formula politica. Ma sta tutto al parlamento: chi avrebbe potuto pensare alla giravolta della Lega, spinta dal mondo imprenditoriale del nord che ha preso per la cravatta Salvini? Né Mattarella poteva sapere che Di Battista avrebbe preso cappello.

Draghi non si è piegato alla richiesta di parlare per dare un’indicazione ai Cinque stelle che dovevano votare su Rousseau?

Certamente non poteva sbattere la porta in faccia ai Cinque stelle, che sono il soggetto maggioritario in parlamento, ma neanche dare la sensazione di essere eterodiretto da Casaleggio&Co. Ha trovato un modo.

Il fatto che i partiti non abbiano potuto presentare una rosa dei ministri è scandaloso?

Oggi i partiti sono ectoplasmi evanescenti, non hanno radicamenti territoriali solidi, né cursus honorum definiti, le leadership che crescono e si formano su twitter e facebook. Non riescono a esprimere una solida classe dirigente. Di candidati indiscutibili, per autorevolezza e competenza, per le posizioni ministeriali ne hanno pochi, o nessuno.

C’è Draghi grazie a Renzi?

Se uno che ha una disgrazia vuole farla diventare una fortuna, questo è uno dei modi, certo. Renzi voleva far fuori Conte. Forse dietro di Renzi c’era uno schieramento di potere che voleva cambiare linea politica. Allora pur non avendo Renzi fatto il nome di Draghi, quell’opzione era nell’aria, e nel momento in cui è stato evidente che non c’era la maggioranza per Conte, Mattarella o scioglieva le camere o faceva una scelta irresistibile, la carta più alta che aveva a disposizione.

Zingaretti ha proposto una fase costituente in parlamento per fare le riforme. Realistico?

Fossi in Zingaretti mi concentrerei sulle cose da fare di interesse più immediato. Intanto è necessaria la legge elettorale. E non sarà facile. Perché se il Pd va avanti con il proporzionale, la Lega non ha alcun interesse a farla. E nel Pd stesso ci sono alcuni che hanno mandato il cervello all’ammasso, che vorrebbero il maggioritario. Invece serve un proporzionale che garantisca la più ampia rappresentatività e faccia scegliere gli eletti da elettori ed elettrici. Poi servono gli aggiustamenti per ridurre il danno prodotto dallo sciagurato taglio dei parlamentari. Oltre non andrei: questo parlamento non ha né la qualità né la legittimazione per fare riforme. Le riforme costituzionali proposte dal Pd, peraltro, non mettono e non tolgono. La sfiducia costruttiva è ininfluente, se ci fosse stata, la crisi di Conte sarebbe stata tale e quale. Se Zingaretti volesse fare una cosa seria dovrebbe proporre una legge sui partiti politici, o rafforzare l’art. 138 per impedire che chiunque vada a palazzo Chigi possa cambiarla come vuole.

Non è mai successo, ma oggi è immaginabile che Draghi passi da palazzo Chigi al Quirinale?

Una prima volta è sempre possibile. Ma siamo seri, bisogna vedere come esce Draghi da questa vicenda. Se da salvatore della patria o da parafulmine di tutte le proteste.

I Cinque stelle sono nei guai, la Lega cambia linea: il populismo italiano è sconfitto?

No, perché il populismo è un esito inevitabile di una politica senza radicamento territoriale solido e che si fonda in gran parte sulla comunicazione. Il M5s ha avuto la sua occasione nel 2018, con un’investitura di grandissima di fiducia. Ma ha mancato di dare una risposta e anche una rappresentanza. Probabilmente per la sua natura: perché è nato come un contenitore indifferenziato di protesta ma non ha saputo crescere e tradurre le proteste in progetto politico per il paese. Non avendo un vero gruppo dirigente e una solida organizzazione, forse non potevano fare il salto di qualità.

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