Sembravano due fidanzatini. A spasso su un Vespone, alla ricerca di intimità per le campagne. Lui davanti con i riccioli scombinati al vento e lei dietro, aggrappata ai suoi fianchi. Intorno il profumo della zagara che stordisce e i giardini dei Ciaculli, l'ultima gola di quel che resta della Conca d'Oro.
Palermo, 1982.

Un giorno come tanti sotto la cima di Gibilrossa, la montagna dalla quale si domina la borgata e dove giù si estende la Favarella, la splendida tenuta di Michele Greco, il capo della Cupola.

Quelli che sembravano fidanzatini sono lì, a un passo dalla masseria del vecchio boss circondata da alberi di arancio e di mandarino.

E all'improvviso incrociano una moto che scende veloce. E' un attimo. Il motociclista rallenta, allunga il collo, guarda con attenzione il ragazzo sul Vespone, lo fissa negli occhi, lo riconosce.

E' un suo compagno di scuola, del liceo. Ma soprattutto è un compagno di scuola che è diventato poliziotto. Poliziotta è anche lei, Margherita, la ragazza che lo accompagna. In un giorno come tanti la caccia ai latitanti è finita, comincia il conto alla rovescia per uno degli omicidi più strategici e dimenticati di Palermo.

Il compagno di scuola

Chi sa chi è Calogero “Lillo” Zucchetto? Chi conosce veramente quale è stato l'aiuto prezioso che ha offerto al giudice Giovanni Falcone e al suo maxi processo? Chi si può immaginare oggi come si poteva vivere o morire in quella Palermo? Lunedì, 14 novembre, fanno quarant'anni.

Me la ricordo ancora quella domenica, a Largo degli Abeti, spigolo fra la via Libertà e la via Notarbartolo, a neanche cento metri dove un decennio dopo sarebbe stato celebrato l'Albero Falcone.

Serata di vento e di pioggia, le insegne luccicanti del cinema Fiamma, le luci del bar Collica, il cadavere di un ragazzo a terra.

Aveva appena mangiato un panino e bevuto una birra, stava raggiungendo Maria, la sua fidanzata, quella vera. Sono arrivati prima quei due, i due sicari più famosi di Cosa Nostra, Pino Greco detto “Scarpuzzedda“ e Mario Prestifilippo, il compagno di classe. Gli sono scivolati alle spalle.

Era ancora vivo Lillo quando Prestifilippo è tornato indietro e ha puntato il revolver alla sua testa. Il colpo di grazia. Mario Prestifilippo, il motociclista incontrato ai Ciaculli. Lillo aveva ventisette anni.

Lotta alla mafia fatta in casa

Il Vespone era color sabbia e gliel'aveva prestato come ogni mattina Ninni Cassarà, il capo della sezione Investigativa della squadra mobile, una delle più formidabili formazioni di poliziotti mai viste in Sicilia.

«Qualche mese prima avevamo comprato un Vespone l'uno e, visto che il ministero dell'interno non ci voleva assegnare nemmeno un'auto in più, Ninni dava il suo a Zucchetto per andare a cercare i mafiosi che fino ad allora nessuno trovava mai», racconta Francesco Accordino, un sopravvissuto di quella squadra mobile dove dirigeva la sezione Omicidi.

La benzina per il Vespone Lillo la pagava di tasca sua. Come accadeva a Cassarà, quando andava in giro con la vecchia 127 del padre.

Prima smontava la targa originale, poi ne appiccicava un'altra fasulla per non farsi identificare nei suoi giri ai Ciaculli. Una lotta alla mafia fatta in casa, sostenuta con finanziamenti personali, perché a Roma non erano molto popolari e ben visti quelli dell'Investigativa palermitana.

Lo stato non c'era e quando c'era faceva finta di niente. «Ai miei tempi andavamo in bicicletta, arrangiatevi pure voi», rispose un questore di Palermo alla richiesta di avere un paio di auto in più per i cacciatori di latitanti.

Qualche volta sul Vespone montava pure Cassarà, quasi sempre però c'era Margherita, Margherita Pluchino. E alla guida Lillo. Perché conosceva ogni viottolo della borgata, gli abitanti di ogni casa, i confini di ogni possedimento.

Il “papa” e la sua tenuta

«Mi ha visto bene e ha capito che ero io e cosa stavo facendo là», disse spaventato Calogero Zucchetto a Ninni Cassarà il giorno che Mario Prestifilippo lo aveva trovato nel regno dei Greco.

Il 1982, un anno infame. A fine aprile l'agguato al segretario siciliano del partito comunista Pio la Torre, a inizio settembre quello al prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa. E in estate gli omicidi a Palermo avevano già superato quota 100. Guerra di mafia. I mandanti e gli esecutori venivano dai Ciaculli.

Calogero Zucchetto era entrato dentro ogni segreto di quel mondo, sapeva chi era Michele Greco, quello che chiamavano "il papa” ma che per la giustizia era solo un signorotto di campagna socio in affari di conti e marchesi e baroni, campione italiano di tiro al piattello, ricchissimo imprenditore agricolo con tanto di passaporto.

Nella sua casa alla Favarella aveva come ospiti abituali il primo presidente della Corte di Appello Giovanni Pizzillo, il comandante dei carabinieri di Palermo Giuseppe Russo, Sua Eminenza il cardinale Ernesto Ruffini. Chi lo doveva toccare mai il "papa”? Chi avrebbe osato fargli un torto nella Palermo dove stato e mafia andavano a braccetto e

L’origine del maxi processo

Michele Greco era un pupo nelle mani dei Corleonesi di Totò Riina? Calogero “Lillo” Zucchetto aveva portato alla sezione Investigativa della squadra mobile tutte queste informazioni, sul “papa” e sugli altri rappresentanti della famiglia dei Ciaculli.

«Non c'era giorno che non ci comunicasse notizie importanti, era un segugio che batteva anche di notte tutta Palermo, conosceva il popolo delle discoteche e delle paninerie palermitane, aveva agganci negli ambienti della prostituzione, delle sale corse e del mercato ortofrutticolo, ma proprio perché conosceva Mario Prestifilippo era stato assegnato alle indagini del gruppo che lavorava sui Ciaculli», ricorda Accordino che quell'estate mise anche la sua firma (con Ninni Cassarà e con il capitano dei carabinieri Angiolo Pellegrini) su un dossier che ha cambiato Palermo: il rapporto "Michele Greco + 161”, in pratica l'origine del maxi processo a Cosa Nostra che si sarebbe aperto da lì a qualche anno.

L'ultima operazione di Lillo, probabilmente quella che ha convinto i mafiosi a farlo fuori subito, appena una settimana prima.

La cattura del latitante Salvatore Montalto a Ciaculli. Preso il 7 novembre, il 14 novembre l'esecuzione in Largo degli Abeti.

Era solo il prologo di ciò che sarebbe accaduto nella squadra mobile di Palermo. In quella squadra mobile che mese dopo mese aveva messo sottosopra Palermo.

Il 28 luglio 1985 l'uccisione di Giuseppe Montana, il capo della Catturandi. Il 6 agosto dello stesso anno l'uccisione di Ninni Cassarà e di Roberto Antiochia, un poliziotto che era tornato dalle ferie per stare vicino ai suoi colleghi. Il 14 gennaio 1988 l'uccisione di Natale Mondo, sporcato con le infamie, ammazzato e sporcato ancora da morto. Tutti eliminati.



Lapidi e squilli di tromba

C'è una lapide a Largo degli Abeti. Ogni anno la polizia celebra una piccola cerimonia in suo onore, un discorso, una corona di fiori, uno squillo di tromba. Ma pochi sono i palermitani che hanno memoria di Lillo nonostante quel cippo nel cuore della Palermo più ricca.

Uno dei tanti altarini, una delle tante croci che si confondono nel passato della città. Alla sua vita sconosciuta, una decina di anni fa, ha dedicato un bellissimo romanzo (il titolo: Un giorno sarai un posto bellissimo) l'attore e regista palermitano Corrado Fortuna che è nato proprio all'angolo di via Notarbartolo. Fa dire al protagonista del suo racconto: «Ogni mattina della mia vita, per andare a scuola, sono dovuto passare davanti a quella lapide che dice: caduto assassinato da vile mano mafiosa, la municipalità di Palermo per ricordarlo pose… non l'hanno ricordato tantissimo a Palermo Calogero Zucchetto… ho dovuto aspettare l'avvento di Internet per capire chi fosse quel ragazzo ammazzato come un cane sotto casa mia..».

Lillo proveniva da un piccolo paese della Sicilia. Era nato a Sutera, case sul pizzo di una roccia al confine fra le province di Caltanissetta e Agrigento.

Alla vigilia del quarantesimo anniversario della sua morte il comune gli assegnerà la "Cittadinanza Benemerita”.

Ci sarà un cantastorie a narrare in mezzo alla piazza. E a Sutera ci sarà anche Francesco Accordino, l'ultimo superstite dell'avamposto degli uomini perduti, come chiamavano una volta la squadra mobile di Palermo.


 

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