«E poi ci sono le Terf, le Trans-exclusionary radical feminist, le femministe transfobiche, un gruppo piccolo, aggressivo. Potrebbero sembrare lontanissime dall’estrema destra, eppure diversi analisti hanno notato come le posizioni di alcune femministe storiche si sono saldate con quelle del conservatorismo più reazionario. Come faceva notare il filosofo Massimo Prearo, molte delle citazioni della propaganda social dei gruppi integralisti neocattolici contro la Zan sono frasi di figure storiche che si dichiarano progressiste, come la filosofa Francesca Izzo e la regista Cristina Comencini».

Per essere un libro che arriva alla vigilia di un voto a scapicollo, o la va o la spacca, quello di Alessandro Zan sembra un libro dal lato di “la spacca”. In Senza paura. La nostra battaglia contro l’odio (Piemme, 160 pagine, in uscita il 14 settembre) il deputato democratico si leva qualche sassolino dalla scarpa, dopo due anni di pazienti tessiture parlamentari sulla legge antiomofobia che porta il suo nome e che sembra essere arrivata al capolinea in Senato. Approderà in aula a palazzo Madama dopo la riforma della giustizia civile, quella della giustizia penale e anche dopo il decreto sulle crisi di impresa, che hanno la priorità perché necessari ai fondi del Pnrr. Dunque se ne parla dopo i ballottaggi delle elezioni amministrative, insomma almeno dopo metà ottobre. I numeri restano incertissimi, si favoleggia di franchi tiratori di Italia viva. L’estate non ha portato consiglio a nessuno, Matteo Renzi in privato dà per morta la legge.

Il leghista gay

Nonostante questo Zan non va a caccia di voti. E non è conciliante con i senatori che fin qui hanno dichiarato che non voteranno il suo testo. Nemmeno con i deputati che gli hanno già votato contro alla Camera: anzi rivela di avere incontrato un collega leghista a Mykonos, quest’estate, «del quale mi ricordo cartelli particolarmente aggressivi contro la legge Zan. Stava baciando un uomo». Ieri in rete un gruppetto di “No Zan” si è scatenato contro la presunzione che un omosessuale debba per forza essere a favore della legge contro l’omofobia. E contro il presunto «ricatto» ai parlamentari gay non dichiarati.

Ma Zan è un omosessuale che, come racconta nel suo libro, ha vissuto il travaglio di un coming out doloroso e tardivo. E nel libro la “rivelazione” sul leghista gay serve solo a ricordare la doppia morale in parlamento, fenomeno già visto in decenni di votazioni sui diritti, dal divorzio all’aborto alle stesse unioni civili: «Oggi in Italia, tra Camera e Senato, ci sono 945 parlamentari. Quelli apertamente gay e lesbiche sono quattro: Ivan Scalfarotto, Tommaso Cerno, Barbara Masini e io. È statisticamente impossibile che siamo solo noi quattro e io so per certo che ci sono parlamentari gay in Forza Italia e Fratelli d’Italia».

Ma soprattutto Zan è ruvido con quella parte di femminismo che ha dichiarato guerra al suo testo e che il deputato democratico accusa di aver regalato un assist ai conservatori, alla Lega e a Fratelli d’Italia. Dunque nessuna ricerca di conciliazione con chi vuole cancellare il concetto di «identità di genere» e rivela «una specifica forma di violenza fatta di ostilità, rigetto, negazione, agite da uomini e donne che hanno raggiunto posizioni di potere che percepiscono l’estensione del campo dei diritti e la protezione difesa di categorie discriminate (discriminate anche da loro) come una privazione dei loro privilegi». Con queste e questi nessun dialogo è interessante, più che possibile: «Ma come posso confrontarmi con chi sostiene che l’obiettivo delle transessuali sia violentare le donne in carcere o barare nelle manifestazioni sportive?», «Questo movimento femminista minoritario ha un approccio secondo il quale il sesso biologico è al centro di ogni cosa, è l’unico orizzonte, la sola possibilità data a un essere umano» ma «come ha ricordato con parole sagge e belle Lea Melandri, l’anatomia non deve essere necessariamente un destino, una condanna. Nessuno nega l’importanza della biologia, ma la storia e l’essenza di una persona non possono essere riconducibili solo lì», «La difesa dei ruoli di genere sulla base della differenza biologica tra i sessi è la difesa della società patriarcale. Le Terf devono almeno rendersi conto di quale sia la loro vera posizione».

L’avviso di Renzi

Zan rivela anche uno scambio via WhatsApp poco affettuoso con Matteo Renzi nel giugno 2021, quando la legge sembra infognarsi alla commissione giustizia del Senato: «Fate bene i conti, Ale. Fate bene i conti», gli scrive il leader di Iv. «C’erano paternalismo e minaccia in dosi uguali nelle nove parole di Renzi», scrive Zan, «gli riconoscerò sempre il coraggio che ha dimostrato cinque anni fa con la legge sulle unioni civili. La storia della comunità Lgbt+ in Italia è però un cammino che non si può fermare al 2016 e al governo Renzi.

Ci sono altre battaglie, altri diritti sui quali non possiamo più mediare». Il fatto è che Zan scarta quasi totalmente l’interlocuzione con i parlamentari e i politici suoi colleghi e si rivolge ai ragazzi e alle ragazze.

Lo si capisce anche dal linguaggio diretto e semplice con cui racconta gli anni dell’adolescenza di «un ragazzo gay cresciuto a Mestrino, Padova, negli anni Ottanta del secolo scorso», gay inconsapevole poi consapevole ma di nascosto da un padre omofobo e leghista («La sua era la Lega Nord della retorica sui veneti e lombardi che pagavano le tasse anche per i meridionali, il sud come palla al piede dell’Italia. Non era ancora Lega razzista e omofoba di Salvini», poi diventa il suo più entusiasta sostenitore politico), un segreto che a 15 anni «non avrei detto neanche a uno specchio in una casa vuota e tutta la mia famiglia in vacanza», poi l’ingresso in Arcigay, l’amore per qualche ragazzo ma soprattutto per la politica, la conquista del Pride a Padova, l’elezione in consiglio comunale e via fino a quella in parlamento. «La tua Italia è migliore della mia», assicura al suo lettore adolescente, oggi c’è un Pride in ogni città, «ci vai con i tuoi amici», «non sei solo, tu ora lo sai».

È qui il vero centro del racconto. Del resto Zan ammette che la battaglia per la sua legge ha fatto un salto di quantità e di qualità e di quantità, quando, dalla primavera del 2021, dalle aule del parlamento è finita sulla copertina di Vanity Fair e poi è diventata una gara di endorsement fra influencer e aspiranti tali, a partire dagli appelli e dai video di Tiziano Ferro, Michela Murgia, Fedez e Chiara Ferragni. Un fenomeno virale che Zan definisce «esercizi di cittadinanza e democrazia», «un canale vivo e nuovo tra il parlamento italiano e la società».

Un canale pericoloso, questo Zan non lo dice, ma il rischio sarebbe evidente se i video anziché contro la violenza fossero a favore di una legge a favore dell’omofobia. Ma questa è una delle due morali della storia, quella inquietante.

L’altra morale invece è edificante: se anche la legge dovesse cadere sulla barricata del Senato, centinaia di migliaia di ragazzi e ragazze ormai hanno disegnato una linea di confine fra il loro modo di vivere e le parole di Matteo Salvini e Giorgia Meloni. E come corollario si capisce per quale ragione il segretario del Pd Enrico Letta resti dell’idea che morire per la Zan sarebbe comunque meglio che consegnare alla delusione non tanto le associazioni del mondo arcobaleno, sul piede di guerra, quanto i giovani e i giovanissimi che miracolosamente, e solo grazie alla rete, la battaglia sulla legge ha messo in movimento.

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