L’argine tra pubblico e privato si è definitivamente rotto anche nel Partito democratico. Durante la direzione del partito, il segretario Nicola Zingaretti ha lasciato cadere una dichiarazione: «Conservo nella memoria e nel cellulare gli appelli di decine di candidati sindaci e candidati presidenti di Regione che mi scongiuravano di stringere alleanze con i Cinque stelle».

La dichiarazione ambigua ha dei chiari destinatari: i tanti sindaci – Giorgio Gori di Bergamo e Dario Nardella di Firenze – ma anche il presidente della regione Emilia Romagna e possibile antagonista alla guida del Pd, Stefano Bonaccini. In una parola, tutta l’ala contestatrice interna ai dem, che chiede a Zingaretti di ridiscutere la linea programmatica del partito, di cui il segretario ha assunto la guida proprio con il motto di «Mai coi Cinque stelle».

Accanto a loro, l’avvertimento sembra indirizzato anche ai capicorrente di Base riformista, Luca Lotti e Lorenzo Guerini, che controllano ancora buona parte dei gruppi parlamentari balcanizzati e fanno fronte comune proprio con il gruppo dei governatori locali.

Quali siano i mittenti di questi sms Zingaretti, però, non lo dice. Lo lascia ricordare, privatamente, a chi li ha scritti. E dice loro implicitamente che è pronto a rispondere agli attacchi con prove incontrovertibili.

Eppure, una dichiarazione di questo tipo scuote alle fondamenta non solo il Partito democratico, che dovrebbe essere una comunità solidale e dunque lontana dalle dinamiche dei ricatti, ma anche il modo stesso di condurre i confronti politici interni.

Il metodo adottato dal segretario del Pd richiama le riunioni streaming inaugurate proprio dal Movimento 5 Stelle, che in ossequio a quel principio di “onestà e trasparenza” imponeva che tutto avvenisse in diretta video e che a questo costrinse nel 2013  anche l’allora segretario dem, Pierluigi Bersani.

Un modus operandi che però è lontano proprio dalla tradizione politica a cui il Pd e soprattutto l’ala zingarettiana si rifà: quello che voleva una politica non urlata, concertata nei luoghi adeguati come le segreterie di partito, dove lavare i panni sporchi senza esporli in pubblico. 

Invece, sembra che Zingaretti abbia portato l’omologazione al grillismo non solo sul piano dell’alleanza strutturale di governo, ma anche su quello della prassi di confronto interno. L’avvertimento non è fraintendibile: il segretario conserva traccia scritta di chiunque oggi pubblicamente sostenga tesi diverse da quelle propsettate a lui negli scambi di messaggio privati.

E poco importa che magari quegli sms siano stati scritti in una diversa fase politica, forse la stessa o di poco successiva a quella in cui lo stesso Zingaretti si candidava segretario sostenendo l’incompatibilità tra Pd e Movimento 5 Stelle.

Politica e trasparenza

Nell’era dell’ostentazione della trasparenza e della pubblicazione delle conversazioni private, ogni traccia scritta può essere utilizzata contro l’autore.

Del resto, che la strategia sia pagante lo insegnano le cronache di oggi. Il caso Palamara che tanto ha scosso la magistratura associata e il Consiglio superiore della magistratura si fonda proprio su questo: l’incontrovertibilità della traccia scritta nella memoria di un cellulare. E poco importa se quelle chat potessero essere lecitamente pubblicate o se necessiterebbero di un contesto per venire lette con la corretta chiave di lettura.

La scelta di Zingaretti di omologarsi a questo modo di intendere il dibattito pubblico, però, ha un duplice risvolto: da un lato avvelena i rapporti individuali con chi fa affidamento che una conversazione intesa come privato scambio tra colleghi di partito rimanga tale; dall’altro adotta uno degli strumenti del populismo politico.

Il segretario del Pd non è il primo, tuttavia: di recente si ricorda il racconto da parte del leader di Azione, Carlo Calenda, delle sue conversazioni riservate con Clemente Mastella, ai tempi in cui ancora si immaginava possibile un governo Conte ter. Mastella, reduce della Prima repubblica e rispettoso di quell’etichetta politica fatta di silenzi, si indignò definendo «squallido» il suo interlocutore: «Un gregario era tanti anni fa, quando l'ho conosciuto, e tale rimane. Sancho Panza non diventerà mai Don Chisciotte».

Chissà quali parole riserverebbero i suoi compagni di partito al segretario, se davvero rendesse pubbliche quelle conversazioni private.

Prima ancora che questo accada, tuttavia, il proverbiale Rubicone è stato attraversato: anche solo l’avvertimento disassa il dibattito interno, trasformandolo in scontro tra avversari. Pronti ad utilizzare fino all’ultimo colpo basso.

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