«Il ripensamento non c’è e non ci sarà». Nel primo giorno da ex Nicola Zingaretti deve ancora convincere tutti del fatto che le sue dimissioni sono «irrevocabili». All’inaugurazione del Playground di Torre Gaia, periferia di Roma, dove improvvisa anche quattro calci a un pallone («si sente più leggero, si è tolto dalle spalle un macigno», spiegano i suoi)dice: «Faccio un passo di lato», ma anche «qualsiasi scelta farà l’assemblea la rispetterò». Sembra uno spiraglio per un ripensamento. Autorevoli esponenti della minoranza Base riformista – quella del duo Guerini-Lotti, da cui sono state scocca le bombarde che hanno tirato giù il segretario – ostentano ancora la certezza che alla fine la crisi rientrerà. Dunque se l’assemblea nazionale del 13 marzo respingesse le dimissioni? «Leggetevi lo statuto. Non è previsto», chiude Zingaretti. Per statuto le dimissioni formalizzate al presidente sono irrevocabili. Da quel momento si può convocare l’assemblea entro trenta giorni per eleggere un segretario (e in teoria, ma solo in teoria, Zingaretti potrebbe farsi rieleggere) o, se non c’è la maggioranza dei due terzi per un nuovo segretario, aprire il percorso del congresso.

Alla presidente dell’assemblea del Pd Valentina Cuppi, la giovane sindaca di Marzabotto, la lettera di dimissioni arriva nel primo pomeriggio. Un testo sofferto, sul quale il segretario uscente si è confrontato con i suoi più vicini, soprattutto con Goffredo Bettini. Non aveva fatto così giovedì per l’annuncio dell’addio. È infatti tutta sua l’espressione «mi vergogno», quando descrive un partito che parla «solo di poltrone e primarie»: una scelta lessicale giudicata «troppo emotiva» da molti, e che in effetti sembra una pietra tombale per ogni ripensamento.

E invece ieri il Pd era tutto un «ripensaci». A taccuini chiusi invece fioccano giudizi severi: la crisi aperta dall’addio è stata una debolezza, indebolirà il partito nell’azione di governo sui delicati dossier della crisi sociale e sanitaria. Per non parlare del rischio sfilacciamento interno. Quelli che hanno cannoneggiato il quartier generale fanno vibranti appelli alla responsabilità dello sconfitto. Le dimissioni sono «una scelta sbagliata», dice Stefano Bonaccini, «basta con le discussioni interne». «Poteva dirlo a Nardella e a chi da settimane parla solo di assetti e contro il gruppo dirigente, soprattutto contro Zingaretti», replica Marco Miccoli. Tirato in ballo, il sindaco di Firenze Nardella, ammette che «Zingaretti ha ragione quando dice di essere stanco della lotta di potere e di posti. Ma noi non abbiamo mai chiesto posti» e neanche «le sue dimissioni». Matteo Ricci, sindaco di Pesaro, rivela che giovedì sera il comitato politico (il caminetto dei big del partito) ha chiesto «all’unanimità a Zingaretti di restare in sella e all’assemblea di respingere le sue dimissioni».

Tutti decaduti

Ora però al Nazareno dilaga lo sbando. I capicorrente restano collegati. C’è aria di pax correntizia, l’esatto contrario di quello che chiedeva Zingaretti gettando la spugna. Si fa l’ipotesi di rinviare l’assemblea per prendere tempo, ma non raccoglie grandi consensi. Da ieri tutte le cariche del Pd sono decadute, tranne la presidenza e i vice. Cuppi è nei fatti la reggente per i prossimi giorni: «Dovremo valutare il percorso da seguire a partire dal 13 marzo», dice, «Mi auguro ci sia una discussione franca con la volontà di ricostruire, di affrontare problemi del paese».

Se l’assemblea votasse per l’avvio del congresso, Cuppi resterebbe fino all’elezione di un nuovo segretario, entro il 2021. Ma l’ipotesi è già scartata: la pandemia non consente previsioni a breve. Molto più probabile che in assemblea le correnti si accordino per eleggere un segretario che resti in carica fino a che non si potranno celebrare le assise, nel 2022. Otto mesi, un anno. Sarà lui a gestire le elezioni amministrative d’autunno. O meglio, lei: perché, per la figuraccia della squadra di governo di tutti maschi (in molte se la sono prese con Zingaretti e non con i propri capicorrente, altra amarezza per l’ex segretario), circolano nomi di donne: Roberta Pinotti, franceschiniana ed ex ministra della Difesa, o Anna Finocchiaro, senatrice del Pd, già vicina alla “Ditta”. Su Pinotti c’è il sì di Base riformista e Giovani turchi, che si sono riuniti ieri sera. In assemblea in realtà la maggioranza ex zingarettiana avrebbe i numeri per eleggersi un leader in autonomia: circola il nome di Andrea Orlando, ministro del lavoro e vicesegretario uscente (ieri ha riunito la segreteria per l’ultima volta prima che le dimissioni di Zinga diventassero ufficiali). Ma sarebbe una scelta troppo «divisiva» in uno scenario così terremotato. Tutti uniti, ora.

Per preparare la delicata assembleav del 13 marzo Cuppi ha messo in piedi una «task force», visto che le cariche sono ufficialmente tutte decadute: Chiara Braga, Marco Furfaro, Nicola Oddati, Luigi Telesca, Stefano Vaccari si aggiungono agli unici rimasti in carica: le due vicepresidenti Anna Ascani e Debora Serracchiani, il tesoriere Verini e la coordinatrice delle donne democratiche Cecilia D’Elia.

Premio di consolazione per il segretario uscente, l’ondata di affetto da cui è investito. Non solo dalla «base». Per oggi pomeriggio le sardine hanno convocato un sit in sotto il Nazareno, come «semplici cittadini». Li incontrerà la presidente Cuppi e Marco Furfaro, responsabile della comunicazione del Nazareno. Non è una riedizione di «Occupy Pd», la mobilitazione che seguì le drammatiche dimissioni del segretario Bersani dopo i «101», forse non c’è più un Pd da occupare, la pandemia ha chiuso le sezioni e i numeri del tesseramento sono sconfortanti. Le sardine vanno a proporre «di aprire le porte delle sezioni, a partire dalla sede nazionale. Di non accontentarsi di siglare l’ennesima resa tra correnti. Se il Pd non è capace di essere il perno della ricostruzione del campo progressista può almeno favorirne la ricostruzione». Perno della ricostruzione del campo progressista: era l’obiettivo di Piazza Grande, il movimento che portò Zingaretti alla vittoria delle primarie esattamente due anni fa. Movimento che lui stesso disarmò, per consegnarsi ai dirigenti che oggi lo hanno accompagnato all’uscita.

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