«Dimissioni irrevocabili. È finita». Chi sta vicino a Nicola Zingaretti – e sono pochissimi, meno del solito – prova a spiegare che l’ondata di affetto di queste ultime ore non lo convincerà a tornare sui suoi passi. «Continuerà a fare politica», ma viene smentita l’ipotesi che in autunno correrà per le comunali di Roma, cioè quello che sembra l’esito naturale per il due volte presidente della regione Lazio. «Ha preso un partito morto, ha vinto le europee, ha portato il Pd al governo, lo ha portato a essere il primo partito alle regionali, ha anche superato la Lega. E non ha mai chiesto niente per sé».

Zingaretti sente come ingiusti gli attacchi di questi giorni. Ha offerto una discussione alla prossima assemblea, un congresso tematico. Le minoranze Base riformista e Giovani turchi hanno chiesto invece un congresso vero, con primarie e elezione del segretario, appena si potrà celebrare. Zingaretti non accetta: «Il Pd non può rimanere impantanato per mesi a causa in una guerriglia quotidiana». E si fa da parte, «visto che il bersaglio sono io, per amore dell’Italia e del partito. Ora tutti dovranno assumersi le proprie responsabilità. Nelle prossime ore scriverò alla presidente del partito per dimettermi formalmente. L’assemblea nazionale farà le scelte più opportune e utili». Una mossa definitiva o un calcolo per farsi “rifiduciare” all’assemblea nazionale del 13 e 14 marzo? C’è chi parla, ma si tratta di un’ipotesi tutta da verificare, dell’ex ministro Roberta Pinotti come reggente fino al congresso. Di certo in questi mesi Zingaretti tante volte ha messo sul tavolo le sue dimissioni. Altrettante volte è stato convinto a rimangiarsele. Forse anche per questo stavolta non l’aveva detto quasi a nessuno. I suoi collaboratori più vicini in mattinata assicuravano che avrebbe «dato battaglia». Alle 15 al Nazareno si svolge una riunione sulle amministrative: «nessun minimo accenno» alle imminenti dimissioni. E invece alle 16 su Facebook la sua lettera inizia così: «Lo stillicidio non finisce. Mi vergogno che nel Pd, partito di cui sono segretario, da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid».

Lascia o raddoppia?

I vecchi amici di Piazza Grande, il movimento con cui ha vinto le primarie due anni fa, puntano sulla retromarcia e intervengono uno dopo l’altro. Inizia Goffredo Bettini: «Spero ci sia lo spazio per un ripensamento. Il Pd ha bisogno della sua onestà, passione e intelligenza politica». Poi Massimiliano Smeriglio, ala sinistra: «Nicola, amico mio ripensaci. C’è una battaglia da fare». Enrico Gasbarra, Monica Cirinnà, uno dopo l’altro. Anche gli alleati gli chiedono di restare. Matteo Ricci, sindaco di Pesaro, appena nominato alla guida di un coordinamento di sindaci che sarebbe servito a gestire i rapporti con i colleghi in rivolta contro il segretario (primi fra tutti Dario Nardella di Firenze e Giorgio Gori di Bergamo): «Comprensibile e condivisibile lo sfogo di Zingaretti, ma Nicola deve rimanere». L’ex ministro Francesco Boccia: «Penso che l’assemblea nazionale abbia una sola strada: chiedergli di restare segretario». Deve restare anche secondo il suo vice Andrea Orlando, come chiedono «militanti, amministratori, sindaci e dirigenti» perché, sottolinea con cura, «il Pd ha bisogno di un punto di riferimento affidabile per affrontare le sfide anche abbiamo di fronte». E Dario Franceschini, l’altro big che gli è rimasto accanto e non ha seguito Base riformista nel cannoneggiamento quotidiano: «Il gesto di Zingaretti impone a tutti di accantonare ogni conflittualità interna, ricomponendo una unità vera del partito attorno alla sua guida». È quello che chiede anche Luigi Zanda, senatore di lungo corso, che nell’ultima direzione era intervenuto proprio per avvertire che lo scontro dentro il Pd stava raggiungendo livelli di allarme rosso. «Un partito plurale vuol dire saper discutere. Da quando è nato, il Pd ha avuto quattro scissioni. Abbiamo un problema serio sui modi della nostra discussione interna», aveva avvertito. Il presidente dei deputati Graziano Delrio lo invita a ripensarci: «In un momento così grave e difficile per il paese il Pd ha bisogno che Nicola rimanga alla guida del partito. Il dibattito interno è fisiologico e non deve essere esasperato. Ritroviamo insieme la strada». Ed è quello che chiede il ministro Lorenzo Guerini, leader – con Luca Lotti – della corrente di ex renziani che nei fatti ha impallinato il segretario: «Mi auguro davvero che Zingaretti ci ripensi, in un grande partito è normale e legittimo che convivano posizioni diverse». Base riformista gli aveva chiesto la «gestione collegiale», magari con la nomina di una vicesegretaria gradita. Per tirare avanti, visto che il congresso nei fatti non si può fare. E visto che Stefano Bonaccini, il candidato d’area, è presidente della regione Emilia–Romagna, in piena terza ondata dovrebbe avere altro a cui pensare. Ma sarebbe stato di fatto, il commissariamento di Zingaretti. Che invece lascia. O imvece raddoppia? Certo da questa drammatizzazione potrebbe uscire più forte di prima. Lui però giura che no. Che le dimissioni sono «irrevocabili», stavolta.

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