Una «scemenza», una «sciocchezza atomica», una «cazzata». Prima di riunire la direzione Pd, dal Nazareno parte la contraerea. Da giorni circola la notizia che Nicola Zingaretti stia pensando alle dimissioni. Le smentite all’inizio erano deboli, tanto che ieri pomeriggio il presidente dei deputati Graziano Delrio dice: «Ci ho parlato un’ora fa e mi ha detto che non è vero». Così viene messa un po’ di convinzione in più: «veleni» dicono dallo stretto giro di Zingaretti, veleni sparsi dalle minoranze che vogliono logorare il segretario e costringerlo al congresso.

Ogni giorno c’è un sindaco dem che lo attacca: quello di Firenze Dario Nardella, di Bergamo Giorgio Gori, di Bari Antonio De Caro. Tutti ex renziani, ex nel senso che non hanno seguito il caro leader in Italia viva (del resto sono sindaci sostenuti da coalizioni in cui il Pd è primo partito, non conveniva). E ora, varato il governo Draghi, tutti contro Zingaretti. Per tirare la volata a Stefano Bonaccini, considerato il candidato di Base riformista, corrente Guerini-Lotti. Circola anche il nome della toscana Simona Bonafé, altra ex renziana doc. Invece l’area di Dario Franceschini resta accanto al segretario, almeno per ora.

Questione donne

Alle tre e mezza Zingaretti apre la direzione. La riunione è stata chiesta dalla conferenza delle donne dopo che al governo sono stati nominati tre ministri, tutti uomini e capicorrente (Franceschini, Orlando e Guerini). Il segretario è sulla graticola anche per aver ceduto alle correnti e per non aver imposto donne. Dopo c’è stato il «riequilibrio» del sottogoverno. Un sottosegretario (Amendola) e cinque sottosegretarie, anche loro tutte rigorosamente spartite per corrente. Zingaretti si assume tutte le responsabilità. «Rifiuto l’accusa di guidare un gruppo dirigente non attento al tema di genere», dice sdegnato, ma il problema evidentemente si pone, «non è un problema delle donne ma di tutto il Pd». Zingaretti propone «un’agenda in dieci punti» sulla «centralità delle donne». Invece sulle convulsioni del suo partito dà appuntamento all’assemblea nazionale del 13 marzo. Non parla delle (presunte) dimissioni, ma non rinuncia a rivendicare la sua correttezza: «Abbiamo fatto tutte le scelte coinvolgendo tutti e tutte», sindaci compresi, e le scelte «sono state approvate sempre all’unanimità». «Se provassimo per sbaglio a non polemizzare su tutto», è quasi una preghiera. Ma è inutile. Si iscrivono a parlare molte donne, del resto il segretario chiede di stare all’ordine del giorno. Inizia la discussione.

Intanto però sulle agenzie le opposte fazioni dem se le suonano. Il vicesegretario e neoministro Andrea Orlando in un’intervista al Quotidiano nazionale parla di «rigurgiti di posizioni che guardano a un Pd del passato». Replica Andrea Marcucci, presidente dei senatori e considerato un renziano in prestito: «Non credo alle congiure. Un grande partito discute liberamente». Rincara il collega Dario Stefano: «Evocare un complotto a danno di Zingaretti è trama degna di un film noir». L’ex ministro Peppe Provenzano la prende sulla politica: «Vedo un grande affollamento al centro, nel favoloso mondo moderato e liberale. Spero che tutto il Pd capisca ora che serve ridefinire, con forme, intelligenze e relazioni nuove, identità e ruolo della sinistra nel XXI secolo. È tempo di idee, non di rese dei conti interne». Parte anche la difesa del segretario da parte di cento iscritti dello storico circolo di Ponte Milvio di Roma: «Stop liti», il segretario è stato scelto dal 66 per cento, oltre 1 milione di persone, «Non è accettabile che ogni volta esponenti di partito, autorevoli o meno, alzino la voce», con «l’effetto di destabilizzare la nostra comunità».

Attacco a Orlando

In collegamento invece continua la discussione. Più di trenta iscritti a parlare, quasi tutte iscritte. Anche qui i toni si fanno più mossi. Chiara Gribaudo, “giovane turca”, spiega che «inutile fare le conferenze se poi non si fa nulla, di fronte a molte donne abbiamo perso credibilità», «servono fatti». E chiede un fatto: le dimissioni di Orlando da vicesegretario, «come fu per Paola De Micheli». In effetti la ministra De Micheli, diventata vicesegretaria in quanto coordinatrice della campagna delle primarie di Zingaretti, alla nomina da ministra fu fatta dimettere. Prima che la direzione inizi ha anche un vivace scambio con i colleghi, e le colleghe. Ricorda che all’epoca «le dimissioni me l’ha chieste Zingaretti». Prende la parola Cecilia D’Elia, portavoce delle donne dem. Si dichiara soddisfatta per la discussione e non si associa alla richiesta di Gribaudo. Ma «serve una vicesegretaria».

La maggior parte dei collegati online, uomini, si guarda bene dal parlare. Forse per timore di fare gaffe sul terreno scosceso della presenza di genere. O forse di più perché in attesa della resa dei conti dell’assemblea. Non Luigi Zanda, considerato ormai un grande saggio. Che infatti non obbedisce al mandato di non parlare delle condizioni del partito: esprime «fiducia politica piena» al segretario. Di un congresso «c’è bisogno e si farà quando la pandemia ce lo permetterà». Nel frattempo però c’è il problema di non scassare il partito: «Un partito plurale vuol dire saper discutere. Da quando è nato, il Pd ha avuto quattro scissioni. Abbiamo un problema serio sui modi della nostra discussione interna». Attenti dunque «alle parole, ai modi e ai temi che usiamo», avverte Zanda. Nella prima settimana del governo Draghi i giornali erano pieni dei problemi interni del Pd: «Dobbiamo sapere come discutere, anche duramente, ma tra amici e non avversari», sottolinea. Come dire: attenzione che a furia di logorare Zingaretti non si finisca per trasformare il Pd nel partito balcanizzato che ha lasciato Renzi. La discussione è aggiornata a lunedì prossimo, sulle questioni di genere, in teoria.

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