Bologna in genere sta simpatica. Sarà l’Università, i ricordi di gioventù che tutti si portano dietro, sarà che ci si passa in treno e che il Bologna Football Club raramente sottrae punti alle grandi della serie A: sta di fatto che fuori di noi sono in parecchi a volerci bene.

Ho ripassato questa regola fondamentale dell’immaginario italiano durante le ultime primarie del centrosinistra, che gli osservatori nazionali hanno raccontato con generosità e benevolenza, rispolverando le consolidate retoriche della «Bologna laboratorio politico» ed «esempio di partecipazione».

Prima e dopo la caduta del Muro, Bologna è stata senza dubbio rilevante per la politica nazionale. Piazza Maggiore è la piazza dell’Ulivo, un’idea che fa le sue prove elettorali proprio alle comunali del 1995; ed è altrettanto la piazza del V Day del 2007, il cui spettacolo edito dalla Casaleggio Associati chiude in questi mesi, dopo aver tenuto banco per un’intera stagione politica.

Bologna è ancora un laboratorio?

Questa volta, però, è diverso: non ci siamo inventati nulla di originale. Che Matteo Lepore fosse il prossimo (candidato) sindaco è una certezza assodata da anni, chiunque segua la politica locale lo sa dall’inizio della scorsa consiliatura, quando Merola lo conferma in giunta e gli affida tutte le deleghe più visibili e «relazionali» (dal turismo alla cultura), cariche che Lepore interpreta con un’energia propedeutica e una curatela comunicativa che solo un candidato designato può avere.

Proprio per questo è buffa la strada tortuosa con cui si è arrivati all’ovvio: attraverso primarie di coalizione che Lepore stesso non avrebbe voluto, ma che per paradosso gli consegnano una piattaforma di consenso e un’immagine pubblica più ampia di quella che avrebbe avuto a disposizione senza la competizione di Isabella Conti, la supersindaca di San Lazzaro (rieletta nel 2019 con l’81 per cento) che attraversando il Savena per sana ambizione politica ha trasformato un delfino del PD bolognese in una sorta di civico aggregatore dell’universo mondo, da emulare su scala nazionale.

La metamorfosi di Matteo Lepore da indicato di partito a candidato largo si deve a diversi fattori locali, che vanno dalla cronica forza del PD bolognese e delle sue relazioni (pressoché inscalfibili, gli avversari da destra e sinistra ormai ne prendono atto) alla quasi scomparsa del M5s emiliano (4 per cento alle elezioni regionali del 2020 in cui corse da solo), il cui capo Max Bugani, ex membro del cerchio magico dell’Associazione Rousseau, è ora obbligato a cercare una coalizione.

C’è, infine, la relazione che negli anni di assessorato Lepore è stato molto bravo a stringere con una sinistra a sinistra del PD che in città pesa attorno al 6-7 per cento, e che per ragioni narrative (fantasia al potere vs governo è il pattern un po’ anni Settanta) è da sempre riottosa a dialogare con «il Partito».

Sembra passato un secolo, ma nel 2016 la sinistra-sinistra di Coalizione Civica corse fuori dalla coalizione, costringendo Virginio Merola al ballottaggio con la Lega – «Il PD è l’avversario, la Lega è il nemico» fu il massimo endorsement che il candidato sindaco Federico Martelloni riuscì a pronunciare per aiutare il sindaco uscente del PD contro Lucia Borgonzoni; un politico, Merola, di solida provenienza Ds, ma al tempo accusato di moderazione e renzismo, tanto quanto Isabella Conti oggi.

Con il M5S moribondo e un’ala sinistra che detesta il tuo partito ma ti riconosce come interlocutore unico per le sue aree di interesse (da lì viene la mascherina rosa che ha accompagnato Lepore per tutta la campagna) mancava solo un «renziano» a fare da parafulmine per tutti gli strali che in genere spettano al candidato sindaco del PD. È questo il principale aiuto dato da Isabella Conti, la cui iscrizione a Italia Viva è un accidente della sua storia sul territorio – tanto quanto il momentaneo «renzismo» attraversato da Lepore nel 2013, nascosto come fosse un’onta e non una fisiologia di qualsiasi iscritto al PD degli ultimi anni –, ma che, per antitesi, è sufficiente a creare la percezione di un nuovo Lepore, argine alle tentazioni centriste del suo stesso partito.

Partito, poteri e sistema

Si tratta, è importante saperlo, di ricostruzioni banalizzanti, certo funzionali agli attori che devono raccontare i propri posizionamenti, molto meno ai commentatori che dovrebbero descrivere la realtà di una città mediamente ricca e vecchia, strutturalmente conservatrice: tranquillamente leporiana. Bologna è un capoluogo che insiste su un tessuto produttivo trainante, ha un bilancio sano, una grande Università internazionalizzata, un aeroporto vicinissimo a un centro storico finto-medievale instagrammabile, una stazione strategica, servizi e welfare sopra la media nazionale, la meraviglia ambientale dell’appennino tosco-emiliano a cinque minuti di macchina.

Non è una città senza problemi, anzi, ma la maggioranza dei suoi abitanti la riconosce come luogo vivibile e ben governato da lungo tempo: valuta, come ha scritto di recente il consigliere Andrea De Pasquale, «che gli interessi del sistema coincidano in larga parte con gli interessi della collettività».

I bolognesi sanno e per lo più accettano che esista un partito saldo al potere, che ha cambiato nome e modi, ma che al pari dei suoi interlocutori economici (tra cui i potenti gestori dei suoi servizi pubblici) non conosce la sconfitta: l’unica alternanza, spesso citata, di Giorgio Guazzaloca nel 1999, è una storia bolognese, che ha più a che fare con i problemi dell’Ulivo che con la destra.

Il 40 per cento di Isabella Conti viene da questo contesto strutturale: dal riposizionamento di tanti numeri tre e quattro di partito, che in questi anni hanno patito all’ombra di Lepore, ma soprattutto dalla ribellione alla consapevolezza cittadina di essere guidati da una sorta di coazione a ripetere più che da un progetto politico veramente forte e innovativo.

Un risultato peggiore di quanto appare

La campagna di Conti è stata tardiva e senza acuti, il suo feudo elettorale è in un altro comune, il suo avversario, forte dei bacini elettorali che ha frequentato e talvolta sponsorizzato in dieci anni di governo, era sostenuto da tre ex presidenti del Consiglio (Prodi, Letta e Conte) e ha chiuso la campagna all’osteria con Guccini.

Nonostante i suoi limiti, il divario mostruoso e lo stigma di renzismo, Conti ha preso solo 5.000 voti in meno di Lepore. Taciuto dai giornali locali, ma è un risultato straordinario, con radici in due fatti utili da riconoscere: l’amore che nonostante i modi in cui vengono indette i bolognesi continuano a dimostrare per l’istituto competitivo delle primarie (26.369 votanti sono pochi meno di quelli delle primarie del 2011, ma allora fecero da traino tre candidati molto diversi e l’entusiasmante contesto post-berlusconiano – a proposito di continuità: Merola prese 16.000 voti, proprio come Lepore oggi); e in secondo luogo la stanchezza o il disagio che tanti bolognesi provano verso un sistema di potere che sarà anche efficiente ma non sembra essere contendibile.

Il politologo Gianfranco Pasquino, che conosce bene la città e che nel 2009 si candidò a sindaco con una sua lista, ha commentato a caldo su twitter: «Diamo i numeri. Ci sono più di 10 mila bolognesi informati e partecipanti che hanno votato per, se non smantellare, almeno scalfire il blocco di potere del PD. Non male». Mi sembra che non si possa sintetizzare meglio le ragioni di chi, per nulla renziano, e forse senza conoscerla nemmeno troppo, ha votato Isabella Conti. Chi dice che questo voto sia moderato racconta solo un pezzo di verità.

E ora, che cosa accadrà? Il secondo paradosso di queste brutte primarie di coalizione senza coalizione è che insieme a Lepore si sono dichiarati vincitori esponenti politici di forze che non solo non hanno partecipato alle primarie, ma hanno anticipato che in caso di vittoria di Conti non l’avrebbero sostenuta. In sintesi, formalmente Lepore è il candidato di una coalizione di centro-sinistra di cui Isabella Conti rappresenta la seconda forza, ma sostanzialmente è il candidato di chi non fa parte della coalizione che ha indetto le primarie.

Si profila così all’orizzonte una non-coalizione che senza aver dibattuto alcuna sintesi politica, nel nome di Lepore proverà a tenere dentro tutti: da Conti (civica o Italia Viva nel simbolo?) a Coalizione Civica (ma non dicevano «mai con la Conti?»), passando per il putrescente M5S. Come possa questo gigantesco carro del vincitore targato PD, lungi dal mettere in discussione l'assetto di interessi consolidati e per l’ennesima volta lasciato senza sfidante dalle «destre» che non hanno ancora indicato il loro campione, essere raccontato come laboratorio replicabile è qualcosa che noi umarell che guardiamo da fuori proprio non comprendiamo.

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