Euroscetticismo, populismo e sovranismo sono state le tre parole-chiave che fino a qualche tempo fa, almeno nel caso della prima, riassumevano il partito salviniano. E soprattutto, sono stati i tre pilastri su cui Lega e Matteo Salvini hanno vinto le scorse elezioni europee. Nel 2019. Praticamente una epoca storica fa. Ma cosa è rimasto di quel partito? Ha ancora senso identificare la Lega con quella triangolazione?

A riguardare alla campagna elettorale per le europee del 2019 emerge infatti un quadro diverso, che in parte spiega la ‘contraddizione’ della Lega al governo con Draghi e che potrebbe preannunciare quella del futuro. L’euroscetticismo se non scomparso, è stato strumentalmente sopito per dare spazio a una forma di ‘populismo tecnocratico’ tranquillizzante basato, da un lato, su un presunto ‘buonsenso’ che per la sua stessa natura viene percepito come imparziale e, dall’altro, si fonda sulla ‘ridislocazione’ dell’antagonismo sovranista da un piano locale a quello sovranazionale.

Alla ricontestualizzazione del regionalismo xenofobo in chiave nazionalista si è dunque associato un discorso populista rassicurante, a tratti paternalistico, presentato come a-ideologico poiché espressione di un diffuso senso comune. Se e quanto il partito e il suo leader saranno capaci di drenare ancora consensi sulla base del populismo tecnocratico lo si testerà alle prossime elezioni; il M5s, l’altro partito con caratteristiche simili, sembra aver perso la spinta. Tuttavia, le posizioni fluttuanti leghiste ripropongono con forza la differenza, almeno dal punto di vista concettuale, fra euroscetticismo e populismo: si tratta di due processi storici e ideologici disgiunti e con traiettorie a volte anche contrapposte. E come tali vanno contrastati. Sarà dunque questa la Lega che dobbiamo aspettarci?

Parabole dominanti

Rispetto al partito del Salvini “in bermuda e infradito” che se ne andava in giro per l’Italia e le sue spiagge nella primavera ed estate 2019, quella di oggi è certamente una Lega non più così radicale ed euroscettica. Un po’ giocare facile, chiaro, vista la ratio alla base della nascita del governo Draghi a cui il partito ha convintamente dato il proprio sostegno e, soprattutto, alla luce della cifra che Bruxelles ha riconosciuto all’Italia per affrontare la crisi pandemica. Essere stati euroscettici in tempi di magra ha pagato in termini elettorali, un aspetto che Salvini condivide peraltro con gli altri leader della destra europea. Ma le immagini del maggio 2019 in cui Salvini conclude a Milano la campagna elettorale affiancato dai leader euroscettici del nord Europa sono oggi molto lontane. Come del resto lo è anche il consenso elettorale che Salvini ha ottenuto nel 2019: quel 34,3 per cento raggiunto dopo una campagna elettorale feroce e giocata su una efficace sinergia fra la presenza sul territorio e la spinta dei social-media, appare oggi un miraggio, pur rimanendo secondo tutti i sondaggi il primo partito italiano.

Tuttavia, benché le elezioni sembrano appartenere a una fase ormai conclusa, l’analisi del linguaggio e del discorso politico proposto durante quella campagna ci può fornire una lente per capire l’apparente contraddizione di oggi. A rileggere con attenzione i tweet e a riascoltare i discorsi pronunciati da Salvini fra il marzo e il maggio 2019 emergono infatti due parabole dominanti che strutturano le posizioni di oggi. Da un lato, la reiterazione di uno stile comunicativo energico e di retoriche populiste ipersemplificate, come già per le politiche del 2018, ma declinate in un prototipo ‘tecnocratico’ che, lungi dall’essere un mero ossimoro come ben mostrano le ricerche di Christopher Bickerton e Carlo Invernizzi, si è nutrito dell’immagine rassicurante e nel messaggio ‘ragionevole’ dell’‘Europa del buonsenso’. Uno slogan, questo, ripetuto come un mantra in tutti i canali di comunicazione politica utilizzati dalla Lega. Il generale discorso politico di Salvini è stato dunque capace di coniugare l’antipolitica razzista e xenofoba ben riassunta nei famosi tweet in cui denunciava l’Eurabia, la presunta minaccia musulmana e l’‘invasione’ dei migranti, con un secondo stile di comunicazione più sobrio, moderato ed ‘euro-diffidente’.

L’euroscetticismo non era dunque il frutto di una pulsione politica irrazionale, ma anzi la sfiducia nei confronti dell’ue era basata su una presunta logica del ‘buonsenso’. Euroscettici perché di ‘buonsenso’, sovranisti proprio perché ‘ragionevoli’. In questa prospettiva il passaggio al sostegno del governo Draghi appare in continuità e assume dunque una legittimità del tutto diversa.

Dall’altro lato, l’analisi del linguaggio politico leghista presenta un secondo elemento di interesse. La trasformazione di quello che era in origine il partito regionalista-secessionista di Umberto Bossi nel movimento (neo)nazionalista di Matteo Salvini era iniziata ben prima dell’ultima tornata elettorale europea o della stessa leadership di Salvini. L’euroscetticismo ha rappresentato la risorsa ideologica esterna che l’‘imprenditore politico’ Salvini è riuscito a sfruttare al meglio nel 2019. Quello che si osserva chiaramente nel discorso leghista è quindi il (se definitivo è troppo presto per poterlo dire) ridislocamento di diadi discorsive da una arena politica, quella nazionale, a un’altra, quella sovranazionale-europea. Un trasferimento di contesto, ma non di funzione discorsivo-ideologica.

In altre parole, gli antagonismi che avevano definito il messaggio ideologico leghista della prima fase sono andati rideclinandosi e riaggiornandosi in un immaginario politico più largo. Quello che salta agli occhi è certamente la contraddizione nella trasformazione del ‘Roma ladrona’ in (un meno becero, va riconosciuto) “Europa dei banchieri”. Lo stesso processo di traduzione è avvenuto anche per altre diadi: Nord contro Sud è diventato Italia contro Europa e sintetizzato nello slogan ‘Prima gli italiani’, così come l’antagonismo Padania versus Italia si è rideclinato in Italia versus Europa e così via per gli altri topoi del regionalismo leghista che in molte occasioni scivolavano e continuano a scivolare in aperte posizioni razziste.

Anche in questo caso, quanto la ridislocazione sia temporanea e se l’originale regionalismo leghista, nella versione soft o secessionista che fosse, potrà in futuro ritornare egemone dipende da fattori contingenti e lo si vedrà nei prossimi appuntamenti elettorali. Quello che emerge con chiarezza da questa analisi, tuttavia, è la persistenza del sovranismo come elemento morfologico dell’ideologia leghista, presente fin dalla fondazione del partito negli anni Settanta. E anche in questo caso, sovranismo non può essere considerato sinonimo di euroscetticismo. E anche in questo caso, una retorica europeista basata sui ‘buoni sentimenti’ non potrà molto nei confronti del populismo tecnocratico della Lega.


Questo articolo prende spunto da una ricerca condotta assieme a Franco Zappettini (University of Liverpool) e George Newth (University of Bath); la responsabilità di quanto scritto, va da sé, è soltanto mia.

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