18:42, 12 marzo 2034 (GMT-4) Washington D.C., in viaggio verso Pechino

Chiunque fosse vissuto durante la guerra avrebbe poi ricordato dov’era nel momento in cui era saltata la corrente. La capitana Sarah Hunt era sul ponte del John Paul Jones, a fare di tutto per tenere a galla la sua nave ammiraglia cercando contemporaneamente di ignorare il panico e le urla provenienti da sottocoperta. Wedge, bendato e con i polsi ammanettati dietro la schiena, veniva scortato da guardie armate lungo la pista di atterraggio del campo di aviazione di Bandar Abbas.

Lin Bao era appena partito dall’aeroporto internazionale Dulles a bordo di un Gulfstream 900, uno dei jet della flotta privata a disposizione dei membri della Commissione militare centrale. In trent’anni di carriera era salito su quegli aerei solo di tanto in tanto, o perché faceva parte di una delegazione diretta a una conferenza internazionale, o per accompagnare un ministro o altre personalità di alto rango. Però non gli era mai stato assegnato un jet personale: un segno dell’importanza della missione che aveva appena compiuto.

Raggiungere la vetta

Aveva contattato Chowdhury subito dopo il decollo, mentre gli assistenti di volo avevano ancora le cinture di sicurezza allacciate. Il Gulfstream era in fase ascendente, e toccava ormai i mille piedi di altezza, quando aveva riattaccato e aveva inviato un messaggio crittato alla Commissione militare centrale per confermare che l’ultima chiamata era stata fatta. La risposta era stata immediata, appena aveva premuto il pulsante “invia”, come se avesse azionato un interruttore. Sotto di lui, le luci che punteggiavano Washington si spensero per accendersi un istante dopo. Come un battito di ciglia.

A quel battito di ciglia pensava Lin Bao osservando la costa est degli Stati Uniti scorrere sotto il jet, mentre entravano nello spazio aereo internazionale e attraversavano la distesa scura dell’Atlantico. Pensò al tempo e a quel detto: “Passerà in un battito di ciglia”.

Nella solitudine dell’aereo, in quel luogo di confine tra nazioni, ebbe l’impressione che tutta la sua carriera fosse servita ad arrivare a quel momento. Ogni cosa nella sua vita – dal periodo in accademia, agli anni in Marina in cui passava da un incarico all’altro, agli studi diplomatici – era stata la tappa di un percorso più grande. Come se avesse scalato una montagna e ora ne avesse raggiunto la vetta.

Guardò di nuovo dal finestrino, quasi si aspettasse di vedere qualcosa da quell’altezza. E invece c’era soltanto l’oscurità. Il cielo nero senza stelle. L’oceano. In quel vuoto, immaginò ciò che stava succedendo dall’altra parte del mondo. Gli parve di vedere il ponte della portaerei Zheng He e l’ammiraglio Ma Qiang al comando del gruppo tattico.

La traiettoria della vita di Lin Bao, che lo aveva portato a diventare un funzionario diplomatico in America, era stata decisa e pianificata tanti anni prima dal suo governo, esattamente come quella di Ma Qiang. Il gruppo tattico dell’ammiraglio era lo strumento perfetto per affermare la sovranità della loro nazione sulle acque del Mar cinese meridionale. All’inizio, quando erano semplici cadetti, non potevano prevedere con precisione il percorso parallelo delle loro carriere, ma potevano intuirlo.

A ognuno il suo ruolo

Avevano frequentato l’accademia navale nello stesso periodo; Ma Qiang, erede di un’illustre famiglia dell’aristocrazia militare – il padre e il nonno erano stati entrambi ammiragli –, frequentava l’ultimo anno. Aveva la reputazione di essere competente, freddo e crudele, soprattutto quando si trattava di umiliare gli studenti più giovani, tra cui Lin Bao. E lui, un prodigio negli studi, si era dimostrato un obiettivo fin troppo facile... Nonostante alla laurea fosse stato il migliore del suo anno, con voti superiori a quelli di chiunque altro nella storia dell’accademia, all’inizio era solo un ragazzino frignone, mezzo cinese e mezzo americano, con una gran nostalgia di casa. Le sue doppie radici lo rendevano particolarmente vulnerabile, non solo alle prese in giro dei compagni, ma anche al sospetto, soprattutto da parte di Ma Qiang.

Erano passati tanti anni da allora e, in fondo, erano state proprio le sue origini a convincere il governo del suo valore e ad assicurargli la posizione che occupava ora. Allo stesso modo, erano state la sua competenza e la sua crudeltà a rendere Ma Qiang l’uomo perfetto per sferrare l’attacco da tempo preparato contro gli americani che si stava dispiegando proprio in quegli istanti.

Ognuno recitava la sua parte. Ognuno aveva il suo ruolo. A Lin Bao non sarebbe dispiaciuto essere il comandante sul ponte della Zheng He, alla testa di una portaerei in assetto di attacco. Dopotutto, anche lui era un ufficiale di Marina e aveva prestato servizio in mare. Ma a compensare questo desiderio, e anche l’invidia per il suo vecchio compagno di accademia, c’era il fatto di essere tra le pochissime persone – sei in tutto – che conoscevano l’effettiva portata degli eventi in corso. Ma Qiang e le migliaia di marinai al suo comando non avevano la più pallida idea che dall’altra parte del globo un F-35 stealth americano era stato costretto all’atterraggio da una capacità offensiva informatica ancora ignota, usata dal governo cinese per conto degli iraniani, né conoscevano il legame tra quella azione e la loro missione. Le qualità che Lin Bao aveva sempre ammirato negli americani – la loro rettitudine, la loro cocciuta determinazione, il loro allegro ottimismo – si erano trasformate in punti deboli, mentre si scervellavano per trovare la soluzione a un problema che non potevano capire fino in fondo. «La nostra forza è la nostra debolezza» pensò Lin Bao. «Sempre». 

Manette cinesi

I fatti erano semplici: gli Stati Uniti avevano fermato il Wen Rui, un peschereccio che trasportava tecnologia sensibile e che il governo cinese avrebbe provato a recuperare a ogni costo. Ma perché il sequestro del Wen Rui innescasse la crisi prevista, il governo cinese aveva bisogno di una moneta di scambio per forzare la mano agli americani: ed ecco entrare in gioco l’F-35. Gli americani avrebbero seguito la consueta serie di mosse e contromosse, una coreografia che Stati Uniti e Cina avevano già messo in scena tantissime altre volte: una crisi avrebbe portato a una presa di posizione, poi all’intervento della diplomazia, infine alla distensione e all’apertura delle trattative. In quel caso particolare, gli americani avrebbero trattato per scambiare l’F-35 con il Wen Rui.

Lin Bao sapeva, e lo sapevano anche i suoi superiori, che agli americani non sarebbe mai venuto in mente che rubare la tecnologia dell’F-35 era solo un obiettivo secondario dei loro avversari e che il carico del Wen Rui era di scarso valore. Gli Stati Uniti non avrebbero mai capito, o forse ci sarebbero arrivati solo quando ormai era troppo tardi, che il governo di Lin Bao puntava alla crisi pura e semplice; una crisi che gli avrebbe consentito di colpire nel Mar cinese meridionale. Gli americani mancavano di fantasia; o, forse, se l’erano persa per strada.

Anche per l’incidente del Wen Rui sarebbero state valide le stesse riflessioni fatte dopo l’11 settembre: ad aver fallito non era stata l’intelligence statunitense, ma la fantasia. E più gli americani avrebbero cercato di divincolarsi per uscire da quella situazione, più le maglie attorno a loro si sarebbero strette.

Lin Bao ricordò uno strano oggetto che aveva visto in un negozio di articoli da regalo a Cambridge, all’epoca in cui frequentava la Kennedy School di Harvard. Era un tubo sottile fatto di fili intrecciati. Il negoziante si era accorto che lo guardava perplesso. «Infila le dita alle due estremità» aveva detto l’uomo con quel forte accento di Boston che Lin Bao aveva sempre avuto difficoltà a capire. Lui aveva seguito le istruzioni ma, quando aveva cercato di liberarsi, il tubo si era stretto attorno ai suoi indici. Più tirava, più le sue dita restavano bloccate. Il negoziante era scoppiato a ridere, non la smetteva più. «Non lo conoscevi?» Lin Bao aveva scosso la testa. L’uomo aveva riso ancora più forte, poi aveva detto: «Si chiamano manette cinesi».


Il testo è tratto dal libro 2034, di Elliot Ackerman e James Stavridis, edito nella sua versione italiana da Sem (Società editrice milanese) e tradotto da Anita Taroni e Stefano Travagli (2021).
© 2021 Elliot Ackerman e James Stavridis

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