Mark Alexander Milley è il generale che nelle ore convulse del fallito golpe dei trumpiani, con l'assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021, salvò gli Stati Uniti da un terribile destino. Sessantaquattro anni, Chairman del Joint Chief of Staff - principale consigliere strategico del presidente, del segretario alla Difesa e del National Security Council, cioè il più alto grado militare in America, nominato da Trump e confermato da Joe Biden, Milley è un super manager in uniforme, moderno stratega laureato a Princeton e con un master in Relazioni internazionali alla Columbia University.

Nelle ultime settimane del 2020 era ormai convinto che l’uomo della Casa Bianca, psicologicamente instabile per la sconfitta elettorale, costituiva un pericolo imminente e reale, da codice rosso per la nazione. Trump aveva perso con largo margine le elezioni (ben 7 milioni di voti meno rispetto a Biden), «aveva subito un declino mentale» all’indomani del voto ed era diventato ormai «quasi maniacale», «urlava contro i consiglieri anziani e gli aiutanti mentre cercava disperatamente di aggrapparsi al potere» negando l’evidenza e propalando falsità sul voto rubato, spiegò in seguito Milley. 

Quando il 6 gennaio, in un discorso a Washington, Trump aizzò migliaia di suoi fan spingendoli verso Capitol Hill, il che provocò violenze, danni e la morte di cinque persone, il generale capì che non poteva rimanere inerte. 

Come risulta dalla trascrizione di una telefonata avvenuta l’8 gennaio 2021, Milley parlò con franchezza alla speaker della Camera, Nancy Pelosi.

Fu la democratica, terza carica dello Stato, a chiamarlo, andando subito al punto: «Come facciamo a mettere in sicurezza i missili nucleari?». 

Pericolo atomico

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Ricostruendo quelle fasi concitate della politica americana, la verità è che Milley ha evitato una drammatica crisi nell’apparato che presiede alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti.

Intanto ha condiviso il suo allarme con i più alti ranghi militari dell'amministrazione americana. Ha ordinato ai suoi principali collaboratori di stare in allerta “tutto il tempo”. Ha chiamato il direttore della National Security Agency, Paul Nakasone, e gli ha detto: «Antenne dritte... continua a guardare, scansiona ogni segnale». E alla responsabile della Cia, Gina Haspel: «Sorvegliate tutto in modo molto aggressivo, a 360 gradi».

La numero uno dello spionaggio gli confermò lo scenario di escalation della tensione e di sintomi golpisti dopo all’assalto a Capitol Hill, con queste parole: «Stiamo andando verso un colpo di stato di destra».

Haspel era così allarmata che quando Trump si rifiutò di concedere la vittoria a Biden dopo l'esito del voto nel novembre 2020, disse: «L'intera faccenda è una follia. Si sta comportando come un bambino di sei anni che fa i capricci». La responsabile della Cia temeva che Trump avrebbe cercato di attaccare l’Iran. 

L'urgenza sulle "precauzioni disponibili" per impedire al tycoon populista di lanciare i missili atomici per vendetta o per mostrare al mondo la sua intatta autorità, fu poi confermata in una lettera inviata dal Pelosi al gruppo democratico della Camera. 

UNITED STATES - DECEMBER 6: American flags stand as the backdrop for the Congressional Gold Medal Ceremony in the Capitol Rotunda on Tuesday, December 6, 2022. The medals were awarded in recognition of "those who protected the United States Capitol on January 6, 2021. (Bill Clark/CQ Roll Call via AP Images)

«Questa mattina, ho parlato al telefono con il capo dello stato maggiore congiunto, generale Mark Milley, per discutere le precauzioni disponibili al fine di impedire che un presidente instabile dia inizio alle ostilità militari o acceda ai codici di lancio e ordini un attacco nucleare», era scritto nella missiva.

«La situazione di questo presidente dissennato non potrebbe essere più pericolosa, e dobbiamo fare tutto il possibile per proteggere il popolo americano dal suo squilibrato assalto al nostro paese e alla nostra democrazia».

La lettera arrivò mentre i democratici al Congresso e alcuni repubblicani stavano facendo di tutto per rimuovere Trump dall'incarico percorrendo due vie parallele: tramite un intervento del vicepresidente Mike Pence e di alcuni ministri dell’Amministrazione (due diedero le dimissioni, Betsy DeVos e Elaine Chao, insieme a una decina di altri membri del gabinetto Trump) invocando il 25° emendamento della Costituzione; e tramite una richiesta di impeachment del Congresso (il che avvenne, ma Trump si salvò per pochi voti, grazie ad alcuni parlamentari del GOP). 

La trincea

Nella sua conversazione con la speaker della Camera, Milley ha cercato di rassicurare Pelosi sul fatto che c'erano “molti controlli nel sistema”: le armi nucleari erano al sicuro. Subito dopo il generale ha convocato d’urgenza nel suo ufficio al Pentagono una riunione segreta di tutti i più alti ufficiali delle Forze Armate (Esercito, Marina e Aviazione) cioè i partecipanti al National Military Command Center, la war room del inistero della Difesa americana.

Aveva le idee chiare e non voleva correre rischi. Il suo obiettivo: riesaminare con i responsabili nella catena di comando le procedure di ingaggio militare con il nemico, compreso il lancio di missili atomici, ribadendo che solo il presidente poteva dare l'ordine ma - ecco il fatto nuovo clamoroso originato in quelle ore - anche lui, Milley, doveva essere consultato direttamente.

Il Chairman del Joint Chief of Staff istruiva i massimi vertici del Pentagono di non prendere ordini da nessuno - nemmeno dal presidente asserragliato nello Studio Ovale - a meno che lui stesso non fosse coinvolto. «Non importa cosa vi viene detto, voi seguite la procedura. Seguite la procedura. E io sono parte di quella procedura», disse il generale ai sottoposti.

Il fronte cinese

Le ore caotiche in cui avvenne la telefonata tra Pelosi e Milley sono state passate al setaccio dai giornalisti del Washington Post Bob Woodward e Robert Costa, il primo autore dello scoop sul Watergate che nell’agosto 1974 portò alle dimissioni di Richard Nixon, il secondo analista politico di NBC News e MSNBC. Nel libro Peril, pubblicato nel settembre 2021, Woodward e Costa rivelano altri particolari anche sul fronte geopolitico.

Visto lo scompiglio che regnava a Washington, Milley telefonò al suo omologo e pari grado militare in Cina, almeno due volte: prima delle presidenziali del 6 novembre 2020 e il 6 gennaio 2021 (poche ore dopo l’assalto a Capitol Hill).

Missione: tentare di evitare un conflitto armato tra le due superpotenze, «una precauzione in buona fede per garantire che non ci fosse una rottura storica dell’ordine internazionale, nessuna guerra accidentale con la Cina o altri paesi, e nessun uso di armi nucleari», come spiegò poi in un'audizione al Senato. 

Per dirla con le sue parole: «Abbiamo un aereo con quattro motori e tre sono fuori uso. Non abbiamo un carrello di atterraggio. Ma faremo atterrare questo aereo e lo faremo in modo sicuro». 

Milley riteneva che la Cina, già in allerta per il comportamento erratico di Trump, avrebbe potuto attaccare se Xi Jinping si fosse sentito minacciato da un presidente americano imprevedibile, instabile e vendicativo. Un «rischio straordinario» per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti.

In quell’occasione fu provvidenziale il collaudato e diretto rapporto che il comandante supremo americano aveva da tempo intessuto con Li Zuocheng, sessantanove anni, generale dell’Esercito Popolare di Liberazione della Cina, capo del dipartimento di stato maggiore congiunto della Commissione militare centrale, suo affine e più alto grado militare a Pechino.

I massimi ufficiali delle superpotenze rivali, contrapposte per obiettivi, visioni del mondo, metodi di governo e competizione economica, erano accomunati da un’unica preoccupazione: non far scoppiare la Terza Guerra Mondiale.

Milley riuscì, sia pure a fatica, a rassicurare Li Zuocheng che gli Stati Uniti non avrebbero attaccato e non avrebbero scagliato missili atomici contro la Cina. 

La prima chiamata ebbe luogo il 30 ottobre 2020, quattro giorni prima delle elezioni, la seconda l’8 gennaio 2021, dopo l'assalto al Campidoglio.

Milley aveva appena letto un report dei servizi di intelligence del Pentagono secondo cui i cinesi erano convinti che la Casa Bianca stesse preparando un attacco. Questa convinzione si fondava anche sulle tensioni nate per le esercitazioni della marina americana nel Mar Cinese Meridionale, acuite dalla retorica guerrafondaia di Trump nei confronti della Cina.

In caso di attacco

Sul piatto della bilancia del confronto tra le due nazioni campioni del capitalismo occidentale e del socialismo di stampo asiatico, andavano messi anche il neo maccartismo contro tutto ciò che aveva il marchio «Cina», dalle società high tech di Pechino quotate a Wall Street, alle app popolari come TikTok, per non parlare del Covid-19 bollato come «virus cinese».

«Generale Li, voglio rassicurarla sul fatto che il governo americano è stabile e tutto andrà bene» disse Milley al suo omologo. «Siamo stabili al cento per cento. Tutto va bene.

La democrazia a volte può essere sciatta» «ma non abbiamo intenzione di attaccare o condurre alcuna operazione militare contro di voi». 

Il Chairman del Joint Chief of Staff arrivò al punto di promettere che avrebbe avvertito in anticipo Li Zuocheng nel caso di un attacco militare statunitense.

«Generale Li, io e lei ci conosciamo da ormai cinque anni. Se saremo costretti, la chiamerò in anticipo. Non sarà una sorpresa». 

Sono passati due anni, Washington oggi si scontra con la Russia di Vladimir Putin che ha sconvolto l'Occidente invadendo l'Ucraina, ma il tema del lancio dei missili atomici è ancora più attuale di prima, poiché ora coinvolge anche la Nato.

 Si tratta di procedure militari cruciali, basate su protocolli prefissati ma anche sul banale buon senso e su un gran lavorio di psicologia e contatti umani personali, al fine di evitare di far scattare l’Armageddon globale nel caso in cui, da una parte e dall'altra, i leader politici diano ordini sbagliati in preda all’emotività, al risentimento o alla perdita di equilibrio. Siamo comunque tutti sempre in pericolo. 

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