Ci sono le sedie non pervenute ad Ankara: è il “sofagate”, con la presidente della Commissione europea finita a margine su un divanetto. Ci sono le parole dure pronunciate a Roma: Mario Draghi ha definito Recep Tayyip Erdogan un dittatore, anche se ha precisato che bisogna cooperare con lui. Ci sono insomma gli screzi e le tensioni di superficie, e in questo contesto colpisce ancora di più che poi nella sostanza dei fatti siamo proprio noi europei a finire per aiutare Erdogan a estendere il suo dominio in Libia. Senza la nostra manutenzione, senza i nostri pezzi di ricambio, senza la cooperazione di noi europei, i suoi voli militari diretti in nord Africa avrebbero se non altro qualche difficoltà in più. Questa è una storia di aerei militari, di armi, di esportazioni, e di un embargo che rimane soltanto sulla carta.

A sollevare il caso è una europarlamentare verde tedesca, Hannah Neumann. È lei che questo autunno ha fatto da relatrice della risoluzione con la quale l’Europarlamento chiede ai governi più trasparenza nell’export di armi. Il 22 per cento delle esportazioni europee infatti va a paesi in conflitto; fra questi, all’Egitto va il 30 per cento, alla Turchia il 28. Esportando materiale bellico l’Ue ha finito per foraggiare conflitti come quello in Yemen e regimi come quello egiziano. L’ultima battaglia politica di Neumann ha a che fare con il coinvolgimento dei governi europei negli attacchi militari turchi in Libia. Il contesto è questo: a marzo l’alto rappresentante dell’Ue, Josep Borrell, vola fino a Roma, incontra i nostri ministri degli Esteri e della Difesa. Tra gli argomenti in discussione c’è la missione Irini, che quello stesso mese viene rinnovata dall’Unione europea per altri due anni. Questa missione serve per implementare l’embargo di armi verso la Libia. L’Ue si attiva insomma per supportare un embargo già imposto dalle Nazioni unite. Il problema è che l’embargo c’è, ma non viene rispettato, come hanno attestato le Nazioni unite stesse. L’ultimo report degli esperti Onu, che risale all’8 marzo, esprime una valutazione inequivocabile: «L’embargo di armi rimane totalmente ineffettivo». Insomma rimane solo sulla carta. Il punto che Neumann solleva è che c’è una responsabilità anche dei governi europei.

Aerei e lettere

Da questa estate è ormai di dominio pubblico che i velivoli per il trasporto militare A400M, prodotti dalla multinazionale europea della difesa Airbus, che dall’Ue è stata anche finanziata tramite programmi per sviluppo e ricerca, vengono utilizzati dalla Turchia, che li ha acquistati, per trasferimenti in Libia. Le rotte sono anche tracciate ed elencate nel report delle Nazioni unite, che concludono che l’introduzione di aerei militari in Libia è da ritenersi una violazione dell’embargo – anche nell’eventualità rara che non stiano trasportando armi o equipaggiamento militare – e osservano pure che talvolta la Turchia usa rotte alternative per sfuggire al tracciamento dell’Onu. Al di là degli aerei di produzione europea utilizzati da Erdogan per rompere l’embargo Onu che l’Ue supporta, c’è poi un altro aspetto che Neumann solleva. E cioè che «Airbus continua a garantire la manutenzione di quei velivoli, continua a fornire pezzi di ricambio, e i lavori di manutenzione sono organizzati da Occar». L’organizzazione per la cooperazione militare nasce a metà anni Novanta, per realizzare una sorta di Europa a due velocità della difesa: visto che l’Ue andava a rilento con il piano di una difesa comune, alcuni governi hanno firmato un memorandum per iniziare già, fra loro, a realizzare sinergie. Tra questi governi c’è anche il nostro. Occar fa sapere che «al momento l’Italia non è coinvolta in questo specifico progetto di manutenzione, al quale partecipano però Germania, Francia, Belgio, Regno Unito e altri paesi». Ma siamo comunque nel supervisory board, al quale partecipano i ministri della Difesa dei governi che sono in Occar. «I governi europei non possono non sapere che la Turchia viola l’embargo, e il fatto che lo faccia con gli Airbus che entrano ed escono dalla Libia, si presuppone non certo vuoti, è stato già segnalato. L’Europa sa», dice Neumann. «E non solo supporta l’embargo Onu, ma ha appena riconfermato la sua missione. L’esportazione di pezzi di ricambio andrebbe documentata. E io invece mi ritrovo qui, a spedire lettere, mentre le risposte che ricevo sono solo tentativi di schivare le responsabilità». Airbus scrive che «rispettiamo le regole e non siamo coinvolti nella pianificazione né nello svolgimento delle missioni realizzate dalla Turchia». Occar si dichiara «orgogliosa» del programma da lei realizzato e «non riveliamo dettagli commerciali, per altre domande si rivolga alle autorità turche».

In Germania, il caso non passa inosservato, e la parlamentare verde tedesca Agnieszka Brugger interroga sul tema anche il governo tedesco, che risponde: «A400M è un progetto congiunto europeo con una filiera manifatturiera multinazionale, di cui la Turchia fa parte. Occar rappresenta le nazioni coinvolte ed è il fornitore strategico. Non abbiamo discusso delle questioni che lei mi pone nel board dei supervisori». Da questo fitto scambio di lettere Neumann, che già giudicava il suo governo, quello tedesco, «a dir poco paziente con Erdogan», trae una conclusione: «Nessuno vuole assumersi la responsabilità di questi fatti». Che però «coinvolgono noi europei». I governi d’Europa, Spagna, Germania, Francia, Italia stessa, da anni esportano massicciamente armi alla Turchia, e non a caso il premier greco – che si confronta con Erdogan per le contese nel mediterraneo orientale – a ottobre ha chiesto di cambiare rotta. Ma anche a lui, nessuna risposta.

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