È fra i leader politici più influenti del Libano ma lo hanno bollato “l’uomo più odiato del paese”. Viene invitato al World Economic Forum di Davos ma gli Stati Uniti lo mettono sotto sanzioni. Si dice aperto alla pace con Israele ma il suo movimento è alleato con Hezbollah. Punta a succedere a Michel Aoun, il presidente del Libano nonché suo suocero dopo il matrimonio con la figlia Chantal, ma nel 2019 è diventato il principale bersaglio delle proteste popolari contro la cattiva amministrazione pubblica. Il coro di strada divenuto tormentone della stagione delle proteste, nel 2019, invocava addirittura i genitali di sua madre. Tutti i libanesi ne conoscono il ritornello.

Guidando in salita verso l’entroterra a Bayada, una cittadina cristiana benestante a nord di Beirut con villette immerse fra ulivi e aranceti, la vista nella direzione di Antelias che si apre sul Mediterraneo, prima dell’intervista ho chiesto al trentaduenne taxista Naim Haddad come Gebran Bassil possa essersi attirato un’ostilità così aspra e diffusa.

Il giovane cristiano-maronita ha riassunto la faccenda in poche parole, nel suo francese stentato. «È stato ministro dell’energia moltissimi anni, e in Libano non c’è energia. Era di famiglia semplice, da quando è in politica è ricco». Una sintesi efficace, penso, superando il check point dell’esercito libanese e il controllo all’ingresso del palazzo moderno dove risiede Bassil.

Le elezioni

Foto AP

«Il mio nome continua a circolare per la presidenza, ma circola senza arrivare da nessuna parte, un vero spreco di energia!», dice Bassil, ghignando, in inglese. Le parlamentari del mese prossimo, infatti, sono importanti anche perché i deputati saranno chiamati poco dopo a eleggere il nuovo presidente (il mandato di sei anni di Aoun scade alla fine di ottobre).

Dal terrazzo di Bassil, suo genero e braccio destro politico, la vista si apre sul litorale, dal porto di Beirut distrutto dalla tragica esplosione dell’agosto 2020 a sud, fino alla centrale idroelettrica di Zouk, memento dello sfacelo dell’azienda pubblica Électricité du Liban, e alla graziosa cittadina rivierasca di Jounieh a nord. Lui è notoriamente basso e tarchiato, talvolta intermezza le frasi con lunghi silenzi, e ride sonoramente dopo le sue stesse battute.

«Il problema è che dobbiamo cambiare il regime», dice, «come hanno provato a fare in Siria», aggiunge ironico. In quanto leader della Movimento patriottico libero, il principale partito cristiano che sostiene l’attuale governo tecnico, ex ministro di esteri, energia e telecomunicazioni, gli chiedo subito conto della crisi profonda che attraversa il paese, a poco più di un mese dalle elezioni del 15 maggio.

Fra iperinflazione, dissesto delle finanze dello stato, svalutazione fuori controllo e povertà sempre più estrema. «Noi proponiamo uno stato laico con un sistema decentralizzato, un po’ come in Italia, con più potere alle autorità locali. Il nostro modello confessionale attuale (nel quale i ruoli politici e gli incarichi istituzionali sono spartiti sulla base dell’appartenenza etnico-religiosa, ndr) non funziona e la nostra costituzione va aggiornata», spiega.

Ma come quasi tutti in Libano, Bassil ha poca fiducia le nuove elezioni possano cambiare qualcosa. «Le riforme richiedono una volontà politica, ma dopo il voto ci ritroveremo più o meno con le stesse persone, gli stessi partiti».

È un classico del Libano che i leader più influenti parlino dei problemi istituzionali e della classe dirigente con fatalismo e desolazione, come se non ne facessero parte e non avessero responsabilità.

Crisi energetica

Fra le grandi sfide che attendono la politica libanese dopo le elezioni c’è quella della crisi energetica: Électricité du Liban fornisce ormai non più di un paio d’ore di corrente al giorno, laddove ha contribuito a circa metà del debito pubblico, e il mercato è ormai in mano a gangster di generatori privati a diesel altamente inquinanti.

Bassil lo sa bene perché è stato ministro dell’energia per cinque anni e anche successivamente il dicastero è rimasto nell’orbita del suo partito.

«È una vergogna», dice Bassil. «Noi avevamo un ottimo piano per il settore, e il Libano è in una posizione strategica per esportare gas in Europa attraverso Siria e Turchia, molto più adatta rispetto a Israele. Ma oltre all’ostruzionismo dei nostri detrattori interni, contro di noi si è abbattuta la volontà di attori stranieri che vogliono conservare lo stato di dipendenza finanziaria del Libano, le istituzioni fallite, in modo da imporci il trapianto dei palestinesi nel paese, l’integrazione dei siriani, e gli accordi di Abramo (fra Israele e diversi paesi arabi)».

È proprio quel periodo al timone del ministero dell’Energia che ha procurato a Bassil la sua principale grana (in entrambi i sensi del termine). Nel 2020 il dipartimento del Tesoro statunitense lo ha infatti sanzionato citando la sua approvazione «di svariati progetti che avrebbero dirottato fondi del governo libanesi verso individui a lui vicini attraverso una serie di società di copertura».

E ancora, il provvedimento di congelamento dei suoi asset e di esclusione dagli Stati Uniti, viene giustificato con il fatto che Bassil incarnerebbe «la corruzione sistematica del sistema politico libanese». «Le condizioni socio-economiche dei libanesi ordinari continuano a deteriorare mentre i leader politici sono preservati dalla crisi», recita il documento.

Per Bassil sono tutte bugie e la designazione è dovuta a motivi politici, in particolare la sua alleanza con Hezbollah. «I nostri rivali sono corrotti e si difendono inventandosi storie su di noi, su ogni progetto», dice riguardo le accuse. «Ho formalizzato una Freedom of Information request rivolta all’amministrazione Usa perché rivelino le basi del provvedimento. In Libano tutti sono in contatto con Hezbollah», dice.

L’alleanza con Hezbollah

Foto AP

Punto interrogativo chiave in vista delle elezioni di maggio è proprio se l’ormai storica alleanza fra il movimento di Bassil e il partito milizia sciita di Hezbollah venga riproposta. «L’alleanza sta traballando», dice lui. «C’è la questione della strategia di difesa, delle armi, delle relazioni con paesi lontani, e del coinvolgimento del Libano in conflitti a noi estranei», spiega alludendo alla milizia di Hezbollah, più forte dell’esercito stesso, ai suoi rapporti con l’Iran e al suo coinvolgimento a fianco di Assad nella guerra in Siria.

Lo preoccupa anche il ritiro dalla politica di Saad Hariri, che lo scorso gennaio ha lasciato la componente sunnita priva di leader in vista delle elezioni. Figlio dell’ex primo ministro e ricco imprenditore libanese Rafic Hariri, ucciso in un attentato nel 2005, Saad ha scelto di farsi da parte in seguito a gravi tensioni coi partner dell’Arabia Saudita. «Il Libano non può permettersi di avere un elettorato importante come quello sunnita assente o depresso», spiega Bassil.

Da Hezbollah lo divide anche una linea un po’ più morbida su Israele. Bassil dice che i negoziati in corso sulla demarcazione marittima con lo Stato ebraico sono «un’opportunità per aumentare la stabilità, la prosperità e la pace nella regione, invece di alimentare conflitti ed estremismo».

I rapporti con Israele

Foto AP

Ma l’alleato Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah e nemico giurato di Israele, non si opporrà a qualsiasi progresso? «Deve essere d’accordo, in fondo l’obiettivo di qualunque guerra è raggiungere la pace», dice Bassil. Quindi considera la normalizzazione possibile? «Il processo di pace si chiama così proprio perché è un processo, Israele deve prima darci tutti i nostri diritti».

A frenarlo non è certo la sensibilità per la sorte dei palestinesi, minoranza a cui i cristiani libanesi storicamente guardano con sospetto. «Devono tornarsene al loro paese. Oppure andarsene dove vogliono all’estero, è una scelta loro», dice della comunità che si trova in Libano dal 1948, come se i profughi e i loro discendenti potessero decidere liberamente.

La pensa in modo simile sugli esuli siriani. «Molti aiuti europei vanno sprecati con siriani che non sono profughi, potrebbero tornarsene in piena sicurezza in Siria». Per Bassil l’assistenza dovrebbe piuttosto andare ai libanesi poveri, sempre più numerosi con la crisi, e «sostenere la comunità ospitante». Protetti andrebbero invece i cristiani del medio oriente: un “complotto” secondo lui ne starebbe causando un drammatico esodo.

Il caso Batroun

Il politico si illumina solo quando gli parli di Batroun, la sua cittadina, che si è distinta negli ultimi anni perché è riuscita a fiorire malgrado il tracollo politico ed economico del Libano. Graziosa comunità di mare cristiano-maronita a nord di Beirut, già oggetto di progetti di riqualifica del centro storico dal 2015, oggi è una festa di hotel e ristoranti pieni, nuovi bar affacciati sul mare e locali alla moda, tenuta bene grazie al flusso di dollari garantito dagli avventori.

«Batroun è un esempio di come tutto il Libano potrebbe diventare», dice Bassil, a cui piace presentala come il suo biglietto da visita. Se i libanesi invece lo associano alla corruzione «è per il complotto internazionale, quello per trapiantare qui gli accordi di Abramo, i palestinesi, i siriani, …», dice.

© Riproduzione riservata