C’è un fiume, il Pripyat, che taglia il confine tra un paese preso d’assedio, l’Ucraina, e uno, la Bielorussia, solidale con l’aggressore, Vladimir Putin. Ai bordi di questo fiume, e quindi al confine ucraino-bielorusso, si svolgono lunedì i colloqui tra la leadership ucraina e russa. Il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, dice di non avere fiducia sugli esiti dei negoziati. Sa che possono essere una messinscena, o nascondere una richiesta inaccettabile di resa. Va comunque, per difendere «l’integrità territoriale» del suo paese. Prima ancora che i colloqui inizino, sia la Russia, assieme a Minsk, che l’occidente, fanno prova di forza. Per Putin significa aumentare la pressione su un ordine internazionale che lui apertamente sfida, per scardinarlo. I moniti sull’uso del nucleare, o i riferimenti alla «Terza guerra mondiale» messi in bocca all’autoproclamato presidente bielorusso, vanno in questa direzione. L’Europa a sua volta fa passi inediti. Non si limita a farsi scudo, chiudendo i cieli ai voli russi, né a usare le sanzioni ad ampio raggio, toccando anche i media della propaganda russa e l’alleato bielorusso di Putin. L’Ue per la prima volta compra e spedisce armi per Kiev, che domenica sera era circondata. E per la prima volta, per il popolo ucraino, l’Ue apre le porte ai rifugiati con dispositivi di emergenza che finora ha rifiutato di attivare. Anche l’Italia assume le conseguenze di questa nuova direzione, e si prepara lunedì alle svolte militare ed energetica con un consiglio dei ministri.

Putin e le minacce nucleari

Domenica le piazze del mondo si sono gonfiate di manifestanti per la pace. Centomila persone si sono radunate sotto la porta di Brandeburgo, in una Berlino che porta i segni delle divisioni tra est e ovest; e lo stesso hanno fatto altre capitali. In Bielorussia intanto, mentre qualche centinaio di persone protestava, e rischiava l’arresto, si svolgeva un referendum particolare. Da quando Aleksander Lukashenko, per il dissenso interno, ha rafforzato la sua svolta autoritaria, anche la politica estera multivettoriale della Bielorussia si è trasformata in dipendenza da Putin. Così l’autoproclamato presidente bielorusso non solo ha ospitato le «esercitazioni», cioè le truppe russe, che poi sono entrate in Ucraina, ma ha reso il suo stesso paese ostaggio della Russia. Domenica un «referendum» ha garantito a Lukashenko – e al Cremlino – di eliminare dalla Costituzione quell’articolo che da più di trent’anni ha assicurato la neutralità nucleare della Bielorussia. Con il voto viene eliminata anche ogni cooperazione con l’occidente, e viene garantito ai presidenti (in carica o ex) che non possano essere perseguiti per i crimini compiuti nel loro mandato. In questo contesto domenica Lukashenko ha fatto ciò che fa ormai da settimane: ha lanciato minacce nucleari. Con intenzioni perfettamente sincronizzate, intanto il Cremlino predisponeva le forze di deterrenza nucleare in stato di allerta. La motivazione ufficiale di Putin è la risposta alle «dichiarazioni aggressive» ovvero alle sanzioni occidentali; peccato che la scelta di colpire anche il sistema di pagamento Swift sia «un’arma nucleare» solo per metafora, usata dal ministro delle Finanze francese Bruno Le Maire. Il presidente russo invece, dopo aver evocato il disastro di Chernobyl asserragliando la centrale, usa il nucleare come forma di pressione; e altrettanto Lukashenko quando ventila «la Terza guerra mondiale». La Casa Bianca, che da dicembre avverte dell’invasione imminente, stavolta punta sulla de-escalation e liquida la minaccia come «fabbricata ad arte».

Cambio di rotta in Europa

Ma l’occidente vede le pressioni del Cremlino, il rischio di lasciar fare Putin. Perciò anche l’Ue, fino a poco fa ostaggio di reticenze interne, lascia in dote a Zelensky in vista del suo negoziato messaggi insolitamente nitidi. Con il G7, l’Ue esclude da Swift alcune banche russe, impone misure restrittive anche alla Banca centrale russa e mette al bando alcuni media ritenuti megafono della propaganda di Putin. Ma non ci sono solo le sanzioni, che si allargano alla Bielorussia e che si intensificano verso Mosca. Per la prima volta l’Ue compra, e consegna a Kiev, armi letali. Quella «peace facility» che i frugali fino a qualche tempo fa volevano mettere a dieta di fondi diventa ora strumento per sostenere la resistenza ucraina. La svolta collettiva si accompagna a quella dei singoli paesi: in Germania il cancelliere Olaf Scholz, prima reticente anche solo a esportare armi a Kiev, ora ne invia e cambia rotta aumentando le spese militari. Anche l’Italia prende le misure con la guerra: Mario Draghi ha convocato per lunedì un Consiglio dei ministri. Nel giorno in cui si incontrano i ministri Ue per discutere di energia, Chigi discuterà di emergenza energetica e di una norma per la «flessibilità delle sorgenti». Draghi prevede anche «la cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari» al governo ucraino; aiuto che era stato promesso il giorno prima a Zelensky. E che arriva in modo crescente da tutti i paesi dell’alleanza Nato.

C’è poi l’altra grande svolta europea, ed è dal lato dell’accoglienza. La Polonia dei respingimenti illegali, l’Ungheria dei referendum anti migranti, la Commissione Ue dell’Europa fortezza, e persino la Lega delle navi bloccate in porto, ora dichiarano le porte aperte al popolo ucraino in fuga. Bruxelles arriva a mettere sul tavolo quel dispositivo di emergenza (una direttiva) che finora, anche davanti ai drammi di cui è stata corresponsabile, come l’Afghanistan, ha rifiutato di attivare. Domenica oltre 300mila ucraini avevano trovato rifugio in Ue, pure in Italia con arrivi a Trieste, e gli arrivi sono previsti a milioni. Stavolta i paesi Ue sono orientati a distribuirsi gli arrivi. Anche se la svolta accogliente ha un corollario allarmante: l’idea che esistano «profughi veri», come li chiama Salvini, e altri di serie B. Il riscontro è anche sul campo: alla frontiera tra Ucraina e Ue si registrano casi di discriminazione etnica tra i migranti che cercano protezione. «Una studentessa di medicina nigeriana è rimasta ore alla frontiera, mi racconta che la polizia ferma i neri e li rispedisce in fondo alla fila», dice Stephanie Hegarty della Bbc. «Prima gli ucraini», dicono le guardie di frontiera.

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