In Svizzera il primo summit Usa-Cina dal ritorno del tycoon alla Casa Bianca. Ai due lati del tavolo il segretario al Tesoro Scott Bessent e il vice premier He Lifeng. Il dragone avverte: «Niente cortine fumogene né estorsioni, non sacrificheremo il diritto internazionale»
Questo fine settimana le delegazioni statunitense e cinese s’incontreranno a Ginevra nel tentativo di porre un argine alla guerra commerciale scatenata da Donald Trump.
Nella città svizzera sono attesi il segretario al tesoro, Scott Bessent, affiancato dal rappresentante per il commercio, Jamieson Greer. Pechino ha inviato il vice premier, He Lifeng, che ha l’incarico di capo negoziatore per il commercio. Si tratterà del primo vertice tra l’amministrazione repubblicana e il governo cinese da quando – il 20 gennaio scorso – Trump è tornato alla Casa Bianca. Da allora gli Usa hanno imposto dazi del 145 per cento sulle importazioni dalla Cina, ai quali Pechino ha risposto con tariffe del 125 per cento su quelle dagli Usa.
Di fatto un embargo reciproco tra le prime due economie del pianeta. Negli ultimi giorni Pechino aveva preteso la rimozione dei dazi come condicio sine qua non per avviare un dialogo con l’avversario avvertendo che «la Cina non si inginocchierà», ma alla fine la discussione inizia con le tariffe trumpiane in vigore. Ha prevalso il tradizionale pragmatismo della Cina post Mao, diventata il primo partner di 150 paesi, che l’anno scorso ha registrato un surplus commerciale globale di 992 miliardi di dollari e che dunque spera di domare le fiamme della trade war.
Il ministero del commercio ha dichiarato che «dopo un’attenta valutazione dei messaggi statunitensi, la Cina ha deciso di collaborare con gli Usa tenendo conto delle aspettative globali, degli interessi nazionali e delle richieste dell’industria e dei consumatori americani». A Pechino ci tengono a sottolineare che a richiedere il summit sarebbe stata Washington. E che «se gli Stati Uniti dicono una cosa ma ne fanno un’altra, o addirittura usano i colloqui come cortina fumogena per continuare con coercizione ed estorsione, la Cina non lo accetterà mai, né comprometterà i suoi principi o sacrificherà la giustizia internazionale solo per raggiungere un accordo».
Dal vertice non è attesa una svolta. «La mia sensazione è che si tratterà di una de-escalation, non di un grande accordo... ma abbiamo bisogno di una de-escalation prima di poter andare avanti», ha dichiarato Bessent a Fox News. È in arrivo anche per la Cina una pausa delle tariffs trumpiane simile a quella di 90 giorni concessa al resto del mondo? Secondo Chen Dongxiao, presidente dell’Istituto di Studi Internazionali di Shanghai, «sarà del tutto possibile raggiungere compromessi reciproci in aree limitate, localizzate e specifiche».
Dunque nessuna intesa come la “Fase uno” siglata nel 2020 (dopo la guerra commerciale del 2018-2019 con il Trump I), con la quale la Cina – che l’anno scorso ha registrato un surplus commerciale di 295 miliardi di dollari nei loro confronti – s’impegnava ad acquistare 200 miliardi di beni in più dagli States. Trump ha di fronte un avversario più ostico rispetto a cinque anni fa. La Cina infatti ha diversificato i suoi scambi internazionali, che sono meno dipendenti dagli Usa, ed è in una fase in cui la domanda interna langue.
Chi ha più fretta di arrivare a un accordo sembrerebbe proprio l’amministrazione repubblicana, come segnalato tra l’altro dall’uscita di Trump secondo cui «i dazi al 145 per cento sono troppo alti e saranno ridotti». Gli Usa infatti potrebbero presto dover fronteggiare la carenza di beni di ampio consumo importati dalla Cina. Il traffico di container dalla Cina agli States si è ridotto del 60 per cento il mese scorso, e JP Morgan stima un calo fino all’80 per cento nel secondo semestre. Questo perché sia gli importatori che i rivenditori non sono interessati ad acquistare beni che costerebbero al consumatore statunitense fino a due volte e mezzo di più.
Quando saranno finite le scorte accumulate prima che entrassero in vigore i super-dazi le merci inizieranno a scarseggiare e i costi a lievitare. Anche la Cina non sarebbe immune da conseguenze, Pechino ha già invitato la popolazione a «rimanere unita durante la tempesta». Già ad aprile l’attività manifatturiera ha registrato la contrazione più rapida degli ultimi 16 mesi.
Nei giorni scorsi la banca centrale ha annunciato la riduzione di mezzo punto della quantità di denaro contante che le banche devono tenere in riserva, per provare a immettere più liquidità. Il governo si riserva di varare un grande piano di stimolo, ma spera che non sarà necessario, perché Trump alla fine verrà a più miti consigli.
© Riproduzione riservata