Non sono solo i dazi a minare la posizione di leadership globale degli Stati Uniti: i tagli ai fondi e la postura aggressiva contro le università “woke” stanno mettendo a rischio la capacità americana di attrarre cervelli. Il mondo universitario e i programmi di ricerca europei possono approfittarne
Almeno dalla Seconda guerra mondiale in avanti, i titoli di stato americani sono stati considerati una sorta di bene rifugio per gli investitori di tutto il mondo, che per decenni hanno finanziato il debito statunitense convinti del ritorno economico che avrebbe generato. I dazi di Donald Trump hanno fatto vacillare questa convinzione, tanto che il presidente statunitense è dovuto almeno in parte tornare sui propri passi e annunciare una sospensione, seppur parziale e temporanea, delle tariffe al confine.
La crisi di fiducia
Trump ha causato però un’altra crisi di fiducia che potrebbe avere conseguenze altrettanto gravi, se non addirittura peggiori per il suo paese, perché rischiano di minare una leadership finora incontrastata. Anche la ricerca statunitense dal secondo dopoguerra è stata punto di riferimento a livello globale nel progresso scientifico, tecnologico e di conseguenza economico. Questo primato ha retto per decenni, anche se la distanza dai paesi inseguitori come la Cina si è ridotta nel tempo. Ora il colpo che potrebbe scalzare gli Stati Uniti dal gradino più alto del podio sembra arrivare non dai competitor, ma dall’interno.
Da un sondaggio pubblicato a fine marzo su Nature è emerso che tre quarti dei ricercatori intervistati stanno considerando l’eventualità di lasciare gli Stati Uniti, per via dei durissimi attacchi che l’amministrazione Trump sta assestando alla ricerca, nella forma di tagli ai finanziamenti e al personale. Più di 1.200, degli oltre 1.600 ricercatori che hanno risposto, ritengono che l’incertezza sul futuro dei propri progetti, e della possibilità di assicurarsi un finanziamento adeguato per potarli avanti, è tale da far loro preferire destinazioni come il vicino Canada o, dall’altra sponda dell’oceano, l’Europa.
Cambiare paese per alcuni significherebbe riunirsi ad amici, collaboratori, famigliari, alla lingua o alla cultura di provenienza, ma per altri si tratterebbe solo di riuscire a continuare a portare avanti il proprio lavoro, messo a repentaglio da provvedimenti già presi o da quelli che si profilano all’orizzonte.
Gli Stati Uniti sono sempre stati visti come la terra promessa di chi vuole intraprendere la strada della ricerca, non solo per gli stipendi generalmente elevati, ma anche per le infrastrutture e le strumentazioni che i centri e i laboratori mettono a disposizione. Un po’ meno della metà (690) dei ricercatori sentiti da Nature è all’inizio della propria carriera accademica e tra questi sale addirittura all’80 per cento (548) la percentuale di coloro che vorrebbero andarsene.
Il caso di Harvard
Gli attacchi a università e college statunitensi sono stati sferrati in nome dell’efficientamento della spesa pubblica, tagliando linee di ricerca sgradite all’esecutivo, ma anche tramite la guerra culturale alle politiche di inclusione, a tutto ciò che suona come “woke”, o tacciando le istituzioni di ricerca di antisemitismo. Quest’ultima accusa ad esempio è stata mossa all’università di Harvard, che ha respinto l’attacco e ha scelto di rispondere a tono, pagando però un prezzo salato: più di due miliardi di dollari in fondi federali le sono stati congelati.
L’università del Massachusetts ha espresso in una lettera la propria indisponibilità ad allinearsi alle richieste dell’amministrazione statunitense, che chiedeva «durature riforme strutturali e del personale» per «ridurre il potere degli studenti e dei membri non strutturati» e dei «membri strutturati e dell’amministrazione più impegnati nell’attivismo che nella ricerca».
Il governo chiedeva inoltre una sorta di supervisione delle procedure di assunzione e di condurre verifiche sui curriculum dei professori del college, in cerca di possibili attività di plagio. Con quest’accusa a gennaio 2024 era stata fatta dimettere Caludine Gay dal ruolo di presidente di Harvard.
«L’università non rinuncerà alla propria indipendenza e ai propri diritti costituzionali» recita la dura risposta del 14 aprile scorso. «Né Harvard né altre università private possono permettersi di cedere la propria autonomia al governo federale».
La Columbia University di New York invece, messa all’angolo in modo analogo dall’amministrazione federale che aveva minacciato di bloccarle 400 milioni di dollari, aveva deciso di andare sostanzialmente incontro alle richieste del governo, acconsentendo, tra le altre cose, di istituire un corpo speciale dotato della facoltà di espellere dal campus persone che ne minacciano la sicurezza.
L’occasione europea
Per almeno un secolo gli Stati Uniti sono stati attrattori di alcune delle menti più brillanti del mondo della scienza, inclusi Enrico Fermi ed Albert Einstein, che ai tempi dei regimi nazifascisti del Novecento scelsero di lasciare i propri paesi d’origine, Italia e Germania, per portare al di là dell’Atlantico il proprio genio, le proprie competenze, ma anche la loro eredità intellettuale.
Oggi la cultura antiscientifica dell’amministrazione Trump può paradossalmente rappresentare un’opportunità per l’Europa di mettere in moto un controesodo di cervelli, a patto di riuscire a mettere sul piatto offerte attrattive.
Esistono già numerose iniziative in diverse università europee: l’università francese di Aix-Marseille è una di quelle che si sono mosse per prime. Attivando il programma Safe place for science ha messo a disposizione 15 milioni di euro per accogliere, per almeno tre anni, una quindicina di ricercatori statunitensi la cui “libertà accademica è a volte messa in questione”. A inizio aprile sono arrivate circa 150 richieste sia da ricercatori che lavorano nelle più prestigiose università americane, come Yale e Stanford, sia da quelli che lavorano nelle agenzie federali come i National Institutes of Health, la National Oceanic and Atmospheric Administration e la Nasa.
La maggior parte delle proposte ricevute riguardano ambiti quali il cambiamento climatico, l’immunologia e le malattie infettive, ma anche progetti di scienze sociali che includono studi di genere e sulla migrazione, tutte tematiche osteggiate dall’amministrazione Trump.
Philippe Baptiste, ministro francese della Ricerca e dell’istruzione superiore che è stato alla guida del centro nazionale per gli studi spaziali, ha parlato di “follia collettiva” riferendosi alle azioni contro la ricerca statunitense. Non solo ha proposto di coordinare le università francesi in un’iniziativa nazionale, ma a metà marzo ha anche firmato, assieme ad altri 11 ministri europei, una lettera indirizzata alla commissaria europea per l’innovazione, la ricerca e le start-up, Ekaterina Zaharieva, per favorire a livello continentale l’attrazione di talenti, specialmente quelli in fuga dagli Stati Uniti. Tra i paesi firmatari non figura l’Italia.
L’obiettivo ultimo è quello di rilanciare la competitività europea, vera e propria bussola del nuovo mandato di Ursula von der Leyen. La Commissione sta lavorando a una serie di iniziative rivolte sia a giovani ricercatori (Choose Europe, all’interno del programma Marie Curie) sia a scienziati affermati (con l’istituzione di cattedre dedicate tramite l’Erc – European Research Council).
Oltre all’aumento dei fondi destinati a ricerca e sviluppo e alla semplificazione burocratica dei bandi, in cantiere ci sono anche azioni legislative volte a tutelare la libertà della ricerca, che nel Vecchio Continente è generalmente in buona salute, ma che secondo l’Academic Freedom Monitor 2024 del parlamento europeo registra un calo in alcuni paesi, tra cui l’Ungheria di Orbán.
Oltre a difendere la ricerca dagli emuli di Trump, l’Europa dovrà renderla attrattiva per chi è abituato a svolgerla nelle strutture meglio attrezzate al mondo. Non sarà semplice, ma è un’occasione più unica che rara.
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