I Talebani non potevano immaginare un migliore spot di propaganda di denuncia della “falsa democrazia corrotta”: la rissa fra i pretoriani del Palazzo per arraffare i dollari abbandonati su tre fuoristrada dal presidente Ghani in fuga verso Abu Dhabi. Ashraf Ghani, che fino a ieri in tv faceva il verso ai politici codardi che se la danno a gambe, è stato il primo a svignarsela con 170 milioni in contante, imitato dai signori della guerra. Privi di paga da mesi, i soldati si arrendevano. Incapace di parlare altra lingua che l’inglese, il governatore della Banca Centrale ha raccontato il panico dei leader politici, precipitatisi direttamente a sgomitare e calpestarsi l’un l’altro in aeroporto, e ha spiegato via twitter ai Talebani dove si trovano le riserve del paese.

Nessun piano di evacuazione, la democrazia importata con Enduring Freedom se la dà a gambe, lasciandosi dietro miliziani che promettono stabilità, inclusione, stampa libera e istruzione per le donne (sotto la shari’a, s’intende). Proprio qui sta il problema, la direzione degli eventi era chiara da tempo, ma solo qualche anno fa a parlare di fallimento in Afghanistan si veniva guardati con sospetto, mentre oggi si parla di shock e di come sia potuto accadere. La democrazia s’accascia mentre la sovranità permane: 250mila morti e la riconquista dell’Emirato, un trauma che segna uno scostamento dell’asse delle relazioni internazionali.

Da tre anni a tre giorni

Affluiranno jihadisti nelle terre dell’Emirato? Non siamo più ai tempi di al-Zarqawi – tempratosi come capo di foreign fighters in Afghanistan, poi istigatore della guerra civile irachena e di Daesh –  il quale si definiva nato nel jihad e si dichiarava globale: una lettera inviatagli dal comando centrale di al-Qa’ida era piuttosto chiara rispetto ad obiettivi che oggi potrebbero dare l’illusione di uno specchio riflesso: espellere gli americani, stabilire un emirato, destabilizzare i paesi vicini, estendere l’emirato. E invece no, in queste ore il coro delle diplomazie delle potenze confinanti insiste sugli apprezzabili segnali di responsabilità che arrivano dai nuovi capi.

L’islam rigorista talebano si distacca dall’esecrazione che il jihadismo riserva ai confini nazionali, bruciando i passaporti e condannando ogni vincolo gli empi e gli apostati. Certo solo l’Emirato, ove vige la legge coranica, è dar al-sulh (la terra dove c’è accordo), ma i vincitori si attengano a un registro di modestia: niente folle rabbiose da cliché, niente retorica roboante che aizza a convertire le terre d’infedeltà in dar al-islam. I loro predecessori dovettero combattere tre anni per Kabul, i nuovi Talebani l’hanno presa in tre giorni. Imbevuti di pragmatismo, organizzati collegialmente e senza eccessi carismatici, esercitano il contegno di chi conosce il valore del consenso. Il ragionamento funziona così: se tocca agli occidentali condannare la Cina per i crimini sistematici sui loro fratelli Uiguri, allora i Talebani seguono una razionalità geopolitica che li rende contenibili ed amalgamabili.

Questa visione è piuttosto miope, e non solo perché è plausibile che Daesh, ben presente in Afghanistan, tornerà ad attaccare, cercando di tracciare col sangue le linee di divisione etno-linguistica e di scomposizione del paese. Il fatto è che già quando instaurarono il loro primo emirato, negli anni Novanta, i Talebani non si precipitarono ad abbattere la linea Durand, che le potenze coloniali tracciarono in forma di confine nazionale che separa i territori tribali del Pakistan con l’Afghanistan, cuore della regione che parla pashtun. A partire dalla campagna contro la coltivazione di oppio, si impegnarono invece per ottenere legittimazione con il seggio Onu, che era rimasto controllato dal regime di Rabbani da loro rovesciato. Arrivarono persino vicino a stabilire rapporti con gli Usa sul progetto Unocal, deragliato con la svolta in politica estera americana della Clinton.

Il campo governativo

Al tavolo negoziale di Doha, il campo governativo si definiva repubblicano, unito sotto la bandiera nazionale, oggi sventolata contro i vessilli issati dai Talebani. La repubblica viene contrapposta all’enfasi talebana sull’emirato – la terra di chi ha l’autorità per comandare, termine con distintiva connotazione storico-religiosa e dottrinaria. Tuttavia, al pari della nozione di repubblica islamica (e quella più ambigua di “stato islamico”) la costituzione di un emirato consistente nel governo tramite la legge islamica di un territorio posto all’interno di confini internazionalmente riconosciuti, può essere vista non come fine ma come uno snodo, un passaggio che è dettato da specifiche circostanze storiche. È per l’appunto a queste ultime –  più che al contegno pubblico o al grado di moderazione che la scuola deobandista consente ai Talebani nell’applicare la shari’a – che sarà necessario porre l’attenzione, cogliendo significative differenze rispetto al mondo di vent’anni fa.

Per quanto possa suonare paradossale, ad essere in affanno oggi, tanto da trovarsi a volte sotto assedio – anche dal punto di vista ideologico –  sono proprio le democrazie, ovvero quei sistemi politici ancorati all’inviolabilità di diritti fondamentali individuali e collettivi rispetto alla sovranità statale, che non fanno guerra l’una all’altra e che spesso, per effetto di un’egemonia sempre più sfidata, tendiamo ancora a considerare sinonimo di Comunità Internazionale. Mentre gli scienziati politici misurano un’erosione egli standard democratici nel mondo, nei primi due decenni del nuovo millennio si sono consolidate diverse forme di autocrazia, alimentate da un’ampia varietà di ideologie (inclusa la ‘democrazia gestita’ partorita nella Russia di Putin, poi diffusasi in forma di sovranismo) e proiettano le rispettive aspirazioni di potenza in un’arena internazionale che è segnata da crescente rivalità geostrategiche. Parecchio si è detto delle relazioni amichevoli fra la Cina e i Talebani, del supporto ricevuto dal Pakistan, del compiacimento con cui Mosca celebra il ‘monumentale fiasco statunitense’, di come siano migliorate le relazioni con l’Iran dei mullah, i primi, dopo la rivoluzione del 1979, a cercare nella costituzione della repubblica islamica una risposta conciliatoria fra fondamento della legge ed esigenze dell’ordine politico.

Molto si è scritto circa il ruolo che storicamente hanno avuto i paesi del Golfo, Arabia Saudita in primis, nel forgiare una generazione di jihadisti che ha scritto la Storia, dall’Algeria alla Cecenia, passando per la Bosnia Erzegovina. Meno si è detto - ed è un paradosso considerato che i negoziati con i Talebani sono stati ospitati in tutti questi anni proprio a Doha - circa il ruolo di quell’altra parte di mondo islamico sunnita che si richiama alla Fratellanza Musulmana, e che trova maggiore espressione nelle politiche estere di Qatar e Turchia. La Turchia, in particolare, offre un’evidente sintesi autoritaria di nazionalismo e conservatorismo religioso, con tanto di sbandamenti dittatoriali e di proiezione unilaterale della forza su diversi teatri regionali. Sempre più presente nel Sahel (dove la Francia ha annunciato un parziale ritiro militare, mentre il ministro agli affari religiosi della giunta golpista del Mali ha definito il suo paese una repubblica islamica), Ankara gioca una partita militare diretta tanto in Somalia quanto nel Nord-Ovest della Siria, con dovizia di uomini dispiegati fianco a fianco con formazioni qaidiste che in queste ore esultano per la vittoria talebana. Si intenda, stiamo parlando di al-Qaida vent’anni dopo, ovvero di un’organizzazione sempre più articolata e diversificata, capace di dotarsi di strategie regionali e nazionali sul lungo periodo, spesso abbandonando le aspettative rivoluzionarie della prima ora per abbracciare relazioni di potere esistenti (es. i proprietari terrieri).

Da nessuna parte come in Siria (Idlib) la Turchia, secondo esercito dell’Alleanza Atlantica delle democrazie, si è mostrata capace di ricondizionare miliziani jihadisti, incorporandoli in formazioni rivelatesi decisive per la propria strategia. Per espandere la propria base territoriale i nuovi Talebani hanno integrato in zone non pashtun anche reti vicine al mondo della Fratellanza. E’ verosimilmente a questo mondo di mediazioni, alleanze ed amalgami ideologici che i Talebani possono guardare con fiducia per una legittimazione de facto e de jure nell’ordine internazionale. Da quanto possiamo vedere, i Talebani si mostrano oggi più attenti che vent’anni fa a costruire lo stato. Due decadi di war on terror hanno offerto una rendita fenomenale a regimi corrotti, che hanno minato a diverse latitudini la democrazia fino alla propria implosione. L’ambizione americana ad essere democrazia-guida riceve un colpo durissimo. Gli scostamenti politici in atto attorno al teatro afghano chiamano in causa le relazioni fra democrazie e autoritarismi.


Il popolo afghano negli ultimi quaranta anni ha vissuto sofferenze inimmaginabili. Solo nel 2021 circa 550mila persone sono state costrette ad abbandonare le proprie case. Sono donne e bambini a pagare il prezzo più alto. Unhcr ed Emergency sono ancora in Afghanistan per aiutarli. Ognuno può dare il proprio contributo con una donazione, bastano pochi click.
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