Nel luglio 2016 fece discutere molto i commentatori politici una foto dell’allora speaker della Camera dei Rappresentanti americani, Paul Ryan, attorniato dal suo staff. Una foto dove a prevalere è l’incarnato pallido dei partecipanti. All’epoca questa immagine venne collegata a quella di un Partito repubblicano sempre più connotato come espressione politica del “risentimento bianco”, un’immagine che rifletteva un’evoluzione sempre più marcata verso il trumpismo.

Torniamo a oggi, con i democratici al potere e una Casa Bianca che sotto la guida di Joe Biden si fregia di aver formato una delle amministrazioni più attente alle minoranze della storia americana. Una narrazione culminata poche settimane fa con la nomina a portavoce di Karine Jean Pierre, donna omosessuale di origini afrocaraibiche. Dietro questa cortina mediatica però, c’era qualcosa che non andava. A cominciare dallo scorso dicembre, quando la portavoce e advisor della vicepresidente Kamala Harris, Symone Sanders, aveva lasciato la sua posizione per la Msnbc.

All’epoca la cosa era stata attribuita all’organizzazione caotica del lavoro dello staff di Harris. Ma sono arrivate altre partenze di afroamericani. L’ultima, pesantissima, è dell’ex deputato della Louisiana Cedric Richmond, direttore dell’ufficio Relazioni pubbliche della Casa Bianca, una posizione da cui l’amministrazione Biden si rapportava con mondo delle lobby. In totale, secondo un report di Politico, sono ventidue i membri afroamericani dello staff che hanno lasciato l’amministrazione. La ragione? La scarsa considerazione e la percezione di non avere chance di far carriera o di contare realmente.

Ennesimo problema di un’amministrazione con un presidente affaticato e un dominus assoluto, il capo di gabinetto Ron Klain, che ora si vede accusato di “tokenismo”, cioè di sventolare le minoranze in modo simbolico. Le accuse sono state respinte al mittente, argomentando che la percentuale di afroamericani che lavora per il presidente è pari al 14 per cento, che rispecchia la quota nella popolazione totale degli Stati Uniti e che lo scorso anno un gran numero di loro è stato promosso. Che succede, quindi? Varie ipotesi sono state fatte sia da Politico che dal quotidiano conservatore New York Post: i bassi salari per i membri base dello staff, che a differenza dei pari grado bianchi spesso non provengono da famiglie benestanti.

Lo scarso interesse per le problematiche delle minoranze, come il fatto di essere bersaglio di violenti attacchi razzisti. L’espressione che circola è “Blaxit”, una crasi tra black e Brexit, termine utilizzato per la prima volta nel 2019 dall’accademico Ulysses Burley per descrivere quello che allora era un fenomeno in corso in piena epoca trumpiana, ovvero l’emigrazione di diversi afroamericani verso il Ghana. Tre anni fa il presidente ghanese Nana Akufo-Addo aveva invitato ufficialmente i neri statunitensi dichiarando “l’anno del ritorno” e dicendo «l’Africa vi aspetta».

Adesso la situazione è in parte cambiata e forse questo piccolo esodo è anche dovuto alla partenza di Richmond, un politico ostracizzato dalla Squad progressista di Alexandria Ocasio-Cortez per aver preso sussidi dalle aziende petrolifere in passato. Si può azzardare un’ulteriore ipotesi, data la passata popolarità di Joe Biden presso le comunità afroamericane: il potere effettivo gli starebbe scivolando dalle mani. Una suggestione che qualora entrasse nel discorso politico mainstream potrebbe aggravare le già catastrofiche prospettive dei democratici per le elezioni di metà mandato a novembre.

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