Le prime battute dell’audizione di Amy Coney Barrett per la conferma della nomina a giudice della Corte suprema degli Stati Uniti hanno ben delineato il clima in cui si svolge una procedura che assume rilevanza sia sotto il profilo giuridico-istituzionale ma anche, e forse soprattutto, sotto quello culturale. Come sempre più spesso accade, si è visto anche durante il primo giorno di audizioni in Senato, in molti sembrano avere posizioni molto chiare rispetto alla professoressa della scuola di legge della University of Notre Dame.

Lotta politica in toga

Nella culture war permanente che caratterizza il contesto politico americano, liberal e conservatori hanno potuto così schierarsi secondo le tradizionali fazioni facendo di una procedura che a fine anni Ottanta aveva condotto alla conferma all’unanimità di un giudice sicuramente molto caratterizzato come Antonin Scalia, la continuazione della lotta politica con altri mezzi. Ma un giudice della Corte suprema è solo un politico che indossa una toga? Davvero la società statunitense non riesce più a condividere spazi istituzionali e a sottrarli alla polarizzazione politica? Sembrerebbe una vittoria di quella scuola di pensiero giuridico dei critical legal studies che proprio negli Stati Uniti visse le sue maggiori fortune.

Gli esponenti di questa scuola interpretativa si proponevano di disvelare l’elemento profondamente politico nascosto dietro i tecnicismi delle dottrine giuridiche e di intraprendere nelle facoltà di legge e nei tribunali un’azione per la conquista dell’egemonia da parte dei gruppi sociali ingiustamente marginalizzati dalla società borghese.

Come ha scritto Duncan Kennedy, uno dei maggiori esponenti del movimento: «Essi hanno dotato questo movimento di una nuova critica interna alla ragione giuridica, di un sapore sessantottino, di un orientamento teorico-ironico-avanzato e di una politica interna di coalizione multiculturale. Non certo una carta, ma forse una bussola».

L’influenza dei critical legal studies nella storia del pensiero giuridico contemporaneo negli Stati Uniti è stata rilevante, ma con il passare degli anni sembra essersi affievolita. Il ’68 ha generato scuole di pensiero progressiste ma, allo stesso tempo, anche se molto più sottotraccia, ha prodotto reazioni di stampo conservatore.

Sogni di egemonia

Come ha illustrato Steven Teles in The Rise of the Conservative Legal Movement (Princeton University Press, 2008) ai sogni di egemonia progressista sul diritto si erano affiancati quelli conservatori. Una miriade di associazioni più o meno rilevanti cominciò ad organizzarsi nell’intento di lanciare una sfida al pensiero progressista per l’egemonia nel campo giuridico e quindi, innanzitutto, sulle Corti e sul potere giudiziario.

Centro nevralgico di questa battaglia è stata per anni la Federalist Society, che ha organizzato gli studenti di legge nelle singole università, li ha messi in rete, ha dato loro la possibilità di interagire con giudici e avvocati. Non sono mancati i finanziatori, ma come lo stesso Teles ha sottolineato, il presupposto dell’azione dei membri della Federalist Society è stato sempre quello di studiare «più dei liberal».

Una variegata costellazione di think tank, studi legali, riviste si è messa in moto e ha navigato per anni. Ha attraversato il deserto dell’irrilevanza per tornare più forte e ribaltare il tavolo. La Federalist Society sceglieva gli studenti di legge più preparati e li sosteneva fino a farli arrivare a lavorare come assistenti dei giudici della Corte supema.

Una strategia per l’egemonia di impronta gramsciana sul sistema di produzione delle idee giuridiche. Mentre i progressisti concentravano le loro energie sui diritti individuali, i conservatori puntavano all’insieme, al sistema. Ruth Bader Ginsburg era arrivata alla Corte dopo anni di militanza in una di quelle organizzazioni del mondo progressista a cui i conservatori si erano ispirati per portare avanti le loro battaglie.

Una milizia

Mentre i progressisti perdevano la visione di sistema, i conservatori serravano le fila e avanzavano come una milizia oplitica. Neil Gorsuch e Brett Kavanaugh, i due giudici confermati sotto Trump, sono il prodotto di questo processo culturale. Ed Amy Coney Barrett? Lo spauracchio del mondo progressista accusata di voler ribaltare la decisione nel caso Roe v. Wade che aveva riconosciuto (non in maniera assoluta) il diritto all’aborto fondandolo sul quattordicesimo emendamento costituzionale, è anche lei un prodotto della rivoluzione giuridica conservatrice? Sì, ma solo in parte.

Non è la solita conservatrice

Come ha evidenziato in un intervento su First Things Patrick Deneen, politologo di Notre Dame, Barrett è anche di più. Non ha frequentato i college della Ivy League, non ha frequentato le scuole di legge di Harvard, Yale o Columbia che di solito formano i giudici che arrivano alla Corte suprema. È il prodotto del fermento intellettuale di un mondo religioso che ha avuto il suo ruolo nella rivoluzione giuridica conservatrice. Si è formata a Notre Dame, centro propulsore del costituzionalismo cattolico. Ne ha fatte sue le idee e lo stile. La vita nella cittadina di South Bend, la famiglia numerosa. Una sfida vivente alla Weltanschauung progressista.

Da più parti è stata evidenziata la sua affiliazione religiosa, il suo cattolicesimo. Rispetto al tema del diritto all’aborto lei stessa ha più volte ribadito in pubblico che non ritiene che la Corte potrà arrivare a ribaltare la sentenza del 1973, ma che sarà possibile avere interventi regolatori, soprattutto a livello statale. Tuttavia, negli anni la stessa Corte suprema è già più volte intervenuta per delimitare la portate della sentenza Roe v. Wade. Ad esempio, nel 1992, con il caso Planned Parenthood v. Casey, la Corte ha già affermato la possibilità di regolare la procedura di aborto se questa non costituisce un peso eccessivo sulla libertà della donna. Non è la prima volta nella storia delle audizioni che l’affiliazione religiosa di un giudice assume rilevanza.

Nel 1956, trentotto giorni prima delle elezioni, Dwight Eisenhower decise di nominare William Brennan con l’istituto del “recess appointment”. Eisenhower, repubblicano, scelse un democratico. La nomina sarebbe stata confermata dal Senato dopo le elezioni.

Brennan era stato scelto dal team di Eisenhower proprio perché cattolico e poteva essere utile per mobilitare consensi per i repubblicani alle elezioni. Il senatore Joseph Mahoney, su richiesta della National Liberal League, pose al giudice domande in merito alla sua affiliazione religiosa.

La risposta di Brennan fu lapidaria: «Senatore (…) ho giurato come lei, come tutti i membri di questa assemblea e come tutte le persone della mia religione che ricoprono un incarico pubblico, sia esso di natura elettiva o amministrativa, senza alcuna riserva (…). E la mia risposta alla sua domanda è che, in maniera categorica, in qualsiasi cosa io abbia mai fatto, in qualsiasi incarico io abbia mai ricoperto nella mia vita o che andrò a ricoprire in futuro, a guidarmi sarà il giuramento che mi vincola ad applicare le leggi e la Costituzione degli Stati Uniti d’America. I casi che sarò chiamato a giudicare in futuro saranno giudicati solo in base a quel giuramento».

Brennan fu il motore ideologico dietro l’espansione liberale determinata dalle decisioni della Corte Warren, fu il mentore di intellettuali come Richard Posner che negli anni successivi avrebbero rivoluzionato il pensiero giuridico statunitense. Firmò l’opinione di maggioranza in Roe v. Wade. Lui il giudice cattolico, che per il suo cattolicesimo era stato sotto osservazione.

Il mondo è cambiato

Come appare evidente, è il mondo che è cambiato. Eisenhower aveva scelto un democratico perché quella appariva ai suoi occhi una scelta “istituzionale” che non avrebbe reso la Corte troppo politicizzata. Quell’atteggiamento rifletteva un consenso sociale oggi ormai polverizzato in una società sempre più polarizzata. Dalle audizioni probabilmente non verrà alcuna soluzione rispetto ai dilemmi progressisti su Barrett.

Già in precedenza Gorsuch e Kavanaugh, accusati di voler ribaltare la pronuncia del 1973 sull’aborto, l’avevano definita “law of the land”, legge consolidata. Un omaggio alla retorica dell’audizione, ma inutile nella sostanza. Lo stesso ha fatto Barrett ieri. Mentre il dibattito nei media è concentrato su una persona, si continua a non vedere il magma della rivoluzione conservatrice che avanza.

Dal suo insediamento ad oggi Donald Trump ha portato alla conferma davanti al Senato di 218 giudici tra corti d’appello, corti distrettuali e Corte suprema. È questo radicamento dal basso della rivoluzione giuridica conservatrice che potrebbe condurre a spostamenti sostanziali degli indirizzi giurisprudenziali anche davanti alla Corte suprema.

I giudici della Corte non scelgono le questioni sulle quali intervenire, ma rispondono alle domande delle corti inferiori. Quei tribunali ora sono infarciti di nomine di Trump. La rivoluzione conservatrice non dorme e, come sempre, concentrarsi soltanto sull’individuo e sul suo eventuale ruolo significa guardare il dito e non la luna.

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