Dopo il triste record dell’anno scorso, anche il 2022 verrà ricordato come un anno nefasto per la diffusione degli attacchi antisemiti sul territorio americano.

Secondo i dati raccolti dal Center for study of hate and extremism dell’università della California, sede di San Bernardino, dal 1° gennaio al 1° dicembre 2022 nelle grandi città è stato peggiore di quello precedente. E dire che spesso alcune polizie locali non rendono pubbliche le denunce per crimini d’odio: anche per questo non ci sono dati nazionali, ma soltanto quelli riguardanti le grandi città. Come ad esempio New York, dove sono avvenuti 260 crimini di matrice antisemita, rispetto ai 170 del 2021.

Ma anche gli ottanta attacchi a obiettivi ebraici registrati a Los Angeles, rispetto ai 71 del 2021 testimoniano un trend preoccupante nelle aree metropolitane, anche se l’Fbi registra una tendenza opposta fuori dai grandi centri abitati: nel 2021 i crimini sarebbero fortemente calati, con 396 denunce riportate contro le 959 del 2020.

Ad ogni modo parliamo di grandi numeri, dato che secondo l’Antidefamation League, un’associazione che monitora l’antisemitismo negli Stati Uniti dal 1979, nel 2021 c’è stata una annata ineguagliata per il numero di attacchi contro obiettivi ebraici.

Chi c’è dietro gli attacchi

Nel 2021, ad aver scatenato un picco di attacchi, fu il breve conflitto tra Israele e Hamas nella striscia di Gaza. Nonostante la presenza di un piccolo ma nutrito gruppo di antisemiti di sinistra, vicini alla causa palestinese, la maggior parte degli attacchi viene attuata da persone vicine al nazionalismo bianco di destra. Per questo motivo la scorsa settimana il presidente Joe Biden, dopo aver ascoltato numerosi appelli provenienti da più parti, tra cui quello del leader democratico al Senato Chuck Schumer, ha creato una task force per combattere l’antisemitismo composta dai membri dello staff del Consiglio per la Sicurezza Nazionale e da quelli del Consiglio per le Policy Nazionali.

Non è chiaro quali che siano i poteri di questa struttura formata di fresco, se non quella di tenere un filo diretto con le comunità ebraiche d’America e di raccogliere eventuali idee per riforme da implementare a livello federale, come quella proposta dal sindaco di New York Eric Adams che toglierebbe la possibilità del patteggiamento processuale per chi si macchia di un crimine d’odio.

Anche se è difficile non pensare che tutto questo attivismo non sia stato scaturito dalla famigerata cena dell’ex presidente Donald Trump insieme al rapper e cantautore Ye, un tempo conosciuto come Kanye West, e al nazionalista bianco Nick Fuentes.

l trumpismo e l’antisemitismo

Trump non è nuovo a intrattenere rapporti con estremisti di destra, del resto il mondo che gravita intorno a lui ha idee che sono largamente condivise nel mondo del nazionalismo bianco, ma c’è sempre stata presente una forte vena filosionista nel trumpismo ed è stata ricorrente nella sua retorica il riferimento a “Israele come faro della civilizzazione”.

Adesso però la figlia Ivanka, convertita all’ebraismo per sposare Jared Kushner, ha deciso di non partecipare alla terza campagna presidenziale del padre e di certo Stephen Miller, uno degli ideologi più feroci dell’antimmigrazionismo totale, non è certo una garanzia contro la penetrazione di elementi antisemiti nell’entourage di Trump.

Per questo quella cena ha avuto una vasta eco di condanna anche tra gli esponenti repubblicani: Nick Fuentes, del resto, è uno dei maggiori influencer antisemiti presenti in ciò che rimane dell’Alt-Right, un movimento estremista nato su Internet nei forum di politica del portale 4Chan nei primi anni Dieci del ventunesimo secolo.

Per Fuentes, autodefinitosi «incel« e «asessuato», gli Stati Uniti dovrebbero superare la definizione conservatrice di nazione giudaico-cristiana e definirsi direttamente «bianca e cristiana». Prima di questo incontro, che Trump ha definito «avvenuto a sua insaputa», dato che non sapeva chi fosse quel giovane amico bianco di Ye, Fuentes era noto solo a pochi addetti ai lavori che seguono il radicalismo di destra.

Non si può certo definire un successo la conferenza da lui organizzata con un titolo non certo originale come “America First” e che si è tenuta a Orlando lo scorso febbraio. Tra gli ospiti di rilievo, per così dire, c’era la deputata della Georgia Marjorie Taylor Greene che ha tenuto un discorso in presenza mentre l’unico altro eletto invitato alla conferenza, Paul Gosar dell’Arizona, noto per aver condiviso un anime nel quale un personaggio col suo volto uccideva una simil Alexandria Ocasio Cortez, ha mandato solo un videomessaggio.

All’epoca nessun altro membro dell’entourage trumpiano si fece vedere in quello che la stampa definì in modo sbrigativo ma efficace «un raduno di neonazisti», mentre adesso c’è il timore che il mondo di Fuentes possa diventare una delle gambe del traballante tavolo che sostiene il trumpismo.

Ci sono altri indizi oltre a questo, come ad esempio il fatto che il profilo di Fuentes su Truth Social, la piattaforma alternativa a Twitter costruita da Trump per diffondere liberamente i suoi messaggi, è stato verificato e approvato con tutti i crismi dell’ufficialità.

Lo stesso Trump, negli ultimi mesi, si è lasciato andare a dichiarazioni improvvide sugli ebrei americani che non avrebbero “compreso” cosa è stato fatto durante il suo quadriennio per il benessere di Israele, tanto che l’ex presidente ha dichiarato che potrebbe facilmente diventarne il primo ministro.

Anche in passato, del resto, Trump aveva condiviso dei meme ironici che usavano brutali caricature antisemite per satireggiare suoi rivali democratici come il senatore Bernie Sanders o l’ex sindaco di New York Michael Bloomberg. Nonostante le sue relazioni familiari, quindi, non si può certo dire che Trump sia impermeabile a certi stereotipi antisemiti. E dato che in passato non si è certo fatto scrupolo di reclutare estremisti di ogni colore per sostenere la sua causa, non si può escludere che possa fare lo stesso con gli antisemiti alla Fuentes nel prossimo futuro.

Del resto nel prossimo futuro dovrà affrontare una dura sfida con il governatore della Florida Ron DeSantis, suo ex alleato, e ogni voto sarà prezioso per riconquistare la nomination repubblicana. Anche se a quel punto bisognerà vedere se l’establishment repubblicano sarà disposto ad accettare per l’ennesima volta ulteriori svolte a destra del proprio programma.

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