Abituati come siamo a consumare lo sport come un pasto preparato da altri, in tanti «non capiranno, ma va bene così». Ashleigh Barty, la numero uno del tennis, vincitrice australiana del torneo di casa dopo 44 anni di speranze disattese e di inutili attese in un paese che è stato la culla di questo sport, ha chiamato l’amica di sempre ed ex collega Casey Dellacqua «perché per me ci sei sempre stata quando ne avevo bisogno, e volevo dire questa cosa alla mia maniera: con la persona giusta davanti a me».

La “cosa” è la decisione di smettere di giocare, che campeggia in apertura di ogni testata down under, accompagnata dalla mestizia in uso per i lutti. Non senza ragioni: Ash Barty è, per darci un metro di giudizio, Francesco Totti. Baggio. Del Piero.

Nel suo paese, lo sport più popolare è l’Australian Rules Football, una specie di calcio mischiato col rugby. Poi, c’è il cricket. Tra gli sport individuali, tennis e golf. Se uno di quei tre fuoriclasse avesse annunciato l’addio a venticinque anni, appena vinto un mondiale, qui si sarebbe scatenato il dibattito, dall’ultimo dei bar alla buvette del parlamento.

Barty come un marchio

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Per quale ragione al mondo, di grazia, Barty ne ha abbastanza? La tennista più forte del pianeta – la più piacevole da veder colpire, la più sportiva e solare, dalle maniere gentili con tutti – aveva distese da conquistare, avanti a sé.

Giovane, con una concorrenza a singhiozzo, padrona di un gioco completo ed efficace su tutte le superfici. D’accordo l’appagamento per aver acciuffato i due sogni della carriera (nell’ordine da lei stabilito, Wimbledon 2021 e Australian Open 2022), ma perché rinunciare alla possibilità di continuare la vendemmia di titoli?

Perché, come suggerito dalla stessa Dellacqua coi lucciconi, mollare proprio adesso, che tutto sembra essersi allineato per un lungo dominio, già in vetta al ranking per più di cento settimane e con la prospettiva di macinare un bel po’ di record?

Non solo: il nome Barty è diventato tanto riconoscibile nel mondo dall’essersi fatto marchio. Un codazzo di aziende disposte a versare milioni pur di usare i suoi abiti come banner pubblicitari aveva da poco rinnovato i suoi accordi: Head per le racchette, Fila per l’abbigliamento, e poi Rado e Jaguar per lo stile di vita (alto), Vegemite per gli amanti di quella raccapricciante, insostenibile crema di lievito di birra speziata, se Dio vuole introvabile nel nostro emisfero.

Amata, vincente, strapagata. «E con una grande passione per questo sport, che mi ha dato tanto, mi ha permesso di ottenere risultati incredibili e che amerò per sempre».

Le risposte sono nel passato

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Per darsi ragione della notizia, può servire riavvolgere il percorso di Ash Barty. Dopo una fulgida carriera nel tennis da giovanissima –con successi in doppio proprio insieme a Dellacqua – nel 2014 ha fatto sapere che il tennis era uno sport troppo per vagabondi, e le sarebbe piaciuto vivere la sua adolescenza in modo più stanziale.

Con una serenità inusuale ha lasciato il tennis per darsi al cricket: una squadra di professioniste l’ha ingaggiata perché, nonostante la scarsissima pratica, aveva delle doti atletiche e di coordinazione occhio-mano sensazionali. Questo fino al 2016.

Ripresa la racchetta, dopo il primo Slam in doppio – Us Open 2018 -  e quello in singolare – Parigi 2019 – è arrivato il Covid e lei, senza alcuna esitazione, ha preferito abbandonare tutta la stagione 2020, tra le preoccupazioni per la pandemia e i sacrifici per giocare tornei con regole strettissime, che impedivano la presenza di famigliari al seguito.

In molti stentarono a capire come la regina del tennis potesse rinunciare alla difesa di un titolo pesante come il Roland Garros, salvo recepire la sua risposta: allenarsi in lockdown duro, come quello imposto dalle autorità statali laggiù, è un sacrificio enorme. La vita è fatta anche di altro. Gli affetti, la famiglia, il tempo ben speso.

In più occasioni, senza farne una tragedia perché la carriera da professionista appartiene alla categoria delle scelte (eccezion fatta per i forzati del tennis, come Andre Agassi o l’altra australiana tormentata Jelena Dokic, figlia di un violento disgraziato) e offre ampie compensazioni alle rinunce, che ciascuno soppesa per conto proprio, Barty ha raccontato per un verso, la difficoltà di condurre un’esistenza costantemente separata da almeno un oceano rispetto a casa.

Per un altro, e lo ha voluto riaffermare nel giorno dell’addio, «non ho più le risorse fisiche e la predisposizione mentale» per continuare a preparare eventi di livello tale da richiedere una totale dedizione e una scorta di energie psichiche che il piattume degli schermi non restituisce mai.

Il successo costa

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Sono riflessioni che possono apparire contraddette dalla triade aliena Djokovic-Nadal-Federer, la cui fame di titoli non sembra mai placarsi e l’idea di rinunciare anche solo all’ultima stilla di agonismo e di vittorie assolutamente improponibile.

Ma il successo costa: che sia uno Slam o arrivare a disputarne uno, o riuscire a vivere una settimana da top 100, o trionfare in un torneo di categoria inferiore. I casi si sprecano: l’ultimo, quello di Dominic Thiem. Dal primo successo Slam, inseguito per anni a ogni costo, all’oblio.

E lo sport di élite vissuto da spettatore non restituisce quasi mai la terza dimensione, quella del quotidiano. Di tutto ciò che sta – e sono mesi, talora anni – tra le due ore scarse di durata di una finale Slam femminile e il lavoro investito per arrivarci. Con la fatica di un fisico portato allo stremo, la pressione di non poter fallire.

La voglia di essere altrove, talora, perché c’è pure quella eppure non si può essere professionisti a giorni alterni. «Raggiungere i miei sogni da tennista è stato fantastico; lasciare adesso, dopo aver vinto gli Open, mi sembra la maniera perfetta. Sono appagata, sono felice, so quanto mi è costato tutto questo e ho capito, proprio dopo Wimbledon, che la mia felicità non dipende dai risultati. Ecco perché ho parlato col mio team, ed erano mesi che il discorso era sul tavolo. E ho deciso. Sento che è il momento giusto, anche se a dirlo mi sento un po’ strana, per posare la racchetta e inseguire altri sogni».

Evonne Goolagong, l’altra campionessa aborigena australiana cui Barty ha spesso fatto riferimento nel rivendicare l’orgoglio dei nativi, ha fatto sapere che comprende bene la sua decisione. Evonne aveva lasciato il tennis per diventare mamma, salvo tornare e vincere Wimbledon nel 1980 in una finale da arci sfavorita contro la grande Chris Evert-Lloyd.

Aveva simili variazioni nel gioco e quell’atteggiamento di serenità agonistica, quasi di distacco, che oggi rende così adorabile Ash Barty, quasi placida mentre piazza i suoi tocchi deliziosi mentre le altre - e più passano gli anni, peggio è - sanno solo brutalizzare la palla e agitare pugni a sproposito, strapazzare le ugole, simulare infortuni.

Fidanzata col golfista professionista Gary Kissick, che presto sposerà, con il suo talento versatile potrebbe provarci davvero col golf, o fare la mamma, o darsi all’Australian rules football, chi lo sa.

Chi spera possa anche tornare una terza e ultima volta, forse si è fatto sfuggire lo sguardo da donna liberata e finalmente sollevata, tenuto durante il dialogo d’addio. Di sbagliato, semmai, c’è che se ne va non solo la più forte, ma anche la migliore di tutte.

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