Nel suo celebre volume, pubblicato nel 2004 e intitolato Military power, lo scienziato politico Stephen Biddle criticava aspramente il modo in cui la maggior parte degli accademici e degli analisti contemporanei è solita analizzare il potere militare. Secondo Biddle, il loro errore consiste nell’assoluta preminenza che essi concedono ai fattori materiali, a scapito di quelli non materiali, nel determinare il potere militare di una forza armata.

Secondo la visione di questi studiosi, infatti, uno stato che desideri aumentare il proprio potere militare deve semplicemente aumentare la spesa dedicata alle forze armate, perché più spesa significa più uomini, più cannoni, e più tecnologia.

Una visione distorta

Ritenere che la spesa militare si tramuti direttamente in potere militare è un assunto del tutto errato. Esso è frutto di tre grandi malintesi che caratterizzano l’approccio delle odierne società occidentali verso le forze armate. Il primo è la crescente tendenza ad applicare alle forze armate gli stessi standard di efficienza applicati alle organizzazioni civili. Si ritiene, in sostanza, che per aumentare l’output – il potere militare – sia necessario aumentare l’input – le risorse – perché la relazione tra input e output sarebbe sostanzialmente proporzionale.

Il secondo è la caratteristica ignoranza in materia di temi militari che caratterizza queste società in tempo di pace. Chi non conosce le questioni militari tende a concentrarsi sui parametri quantitativi, perché intuitivi e facili da analizzare.

Il terzo malinteso è il determinismo tecnologico, ovvero la convinzione che l’innovazione tecnologica si traduca necessariamente in un incremento di potere militare. Chi sostiene questa visione – inevitabilmente promossa dall’industria militare – ritiene che la spesa militare debba essere prioritariamente indirizzata verso l’investimento in tecnologie avanzate, perché l’esercito che per primo disporrà del nuovo “proiettile d’argento” sarà quello che prevarrà sul campo.

Al contrario di quanto si possa credere, gli elementi centrali dell’efficacia militare, ovvero la capacità di una forza armata di tradurre le risorse che le vengono conferite in potere militare, sono prevalentemente non materiali: si tratta della qualità della strategia militare, della qualità organizzativa delle forze, della dottrina d’impiego delle unità, del livello di addestramento dei militari, e di tutti quei fattori umani, primo tra tutti il morale, che determinano il comportamento di un individuo in combattimento.

Dottrina d’impiego

La strategia militare indica come costruire e calibrare le forze in funzione del tipo di impiego previsto. Un esercito strutturato per combattere operazioni convenzionali ad alta intensità avrà enormi difficoltà a prevalere contro formazioni di ribelli capaci di impiegare tattiche di guerriglia. Gli Stati Uniti hanno stravinto lo scontro militare convenzionale contro l’esercito iracheno durante la Guerra del Golfo, ma pochi anni prima la loro strategia si era rivelata inadeguata ad affrontare una guerra del tutto diversa contro un avversario irregolare come i guerriglieri vietnamiti.

La struttura organizzativa, cioè il modo in cui le forze sono organizzate, può trasformare un esercito che sulla carta è formidabile in un’organizzazione totalmente inefficiente. Gli storici militari, ad esempio, sono concordi nel ritenere che tra le cause determinanti delle sconfitte subite dall’esercito italiano in molte battaglie della Seconda guerra mondiale, vi sia quella legata alla sciagurata decisione, presa da Badoglio nel 1938, di ridurre il numero di brigate presenti all’interno delle divisioni di fanteria, senza tenere conto che questa scelta avrebbe presupposto un cambiamento netto nelle modalità d’impiego di queste unità.

La dottrina d’impiego, ovvero l’insieme delle tattiche utilizzate e delle metodologie operative applicate, guida i comandanti nella gestione delle unità sul terreno. Essa deve tenere conto delle caratteristiche delle proprie forze e di quelle del nemico, oltre che del terreno su cui ci si muove.

Gli italiani sanno bene quanto costi fare i conti con un nemico che dispone di una migliore dottrina d’impiego, visto che la scelta di una tattica estremamente efficace, quella dell’infiltrazione, ha rappresentato uno dei motivi per cui le unità tedesche hanno penetrato così agilmente il fronte italiano nell’ottobre del 1917, nei pressi di Caporetto.

Addestramento e morale

L’addestramento è la conditio sine qua non dell’efficacia militare; senza di esso tutti gli altri elementi, tangibili e intangibili, perdono di valore. Purtroppo, esso non si può misurare: prendere parte a costose e lunghe esercitazioni internazionali può rappresentare un enorme sperpero di risorse pubbliche se le attività esercitative non sono condotte in maniera realistica.

Che l’addestramento, dunque, debba essere la principale attività di una forza armata in tempo di pace sembra scontato, ma ancora una volta il caso italiano mostra come esso venga spesso lasciato in secondo piano. Se si osserva, infatti, il bilancio del nostro esercito, si scopre che la voce “esercizio”, quella cioè riservata all’addestramento, è estremamente sottofinanziata e ben al di sotto della soglia minima del 25 per cento fissata dai vertici militari.  

Infine, l’elemento intangibile più importante di tutti è rappresentato dal fattore umano. Centinaia di studiosi di storia e sociologia militare hanno dimostrato che elementi come la motivazione e il morale dei soldati siano spesso il fattore centrale che determina la prestazione dei militari in situazioni di combattimento. L’organizzazione militare deve dare assoluta priorità a ogni iniziativa che favorisca il sorgere di legami fraterni tra i soldati, elemento centrale alla base del morale, e riporre massima attenzione a che le unità di cui si compongono i reparti siano guidate da comandanti in grado di motivare i loro subordinati.  

I rischi

Lo studio di questi fattori, come si può intuire, richiede conoscenze approfondite in materia: occorre conoscere la storia militare, per apprendere i princìpi che governano i conflitti armati, e per evitare di ricadere in errori già commessi; occorre conoscere la sociologia, specialmente quella militare, per capire le dinamiche organizzative interne alle forze armate e per comprendere il ruolo della cultura militare nel determinare il comportamento degli uomini in uniforme; occorre conoscere, infine, la teoria delle relazioni civili-militari, ovvero quella serie di princìpi che consentono un’interazione tra la sfera politica e quella militare in grado di assicurare allo stesso tempo che gli uomini in divisa non facciano politica e che i politici non indeboliscano le forze armate usandole come uno strumento tuttofare utile per raccattare voti.

Purtroppo, l’approccio con cui le odierne società occidentali affrontano le questioni militari non tiene conto di questi ragionamenti, e scade spesso in una superficialità che favorisce la centralità degli aspetti quantitativi rispetto a quelli qualitativi. Analizzare il potere militare in questa maniera rappresenta un’operazione estremamente pericolosa, perché impedisce ai responsabili politici, ma soprattutto all’opinione pubblica, di conoscere le reali capacità delle proprie forze armate.

L’inevitabile rischio, allora, è che il giorno in cui questi stessi responsabili politici si dovessero accorgere che le proprie forze armate, che sulla carta apparivano estremamente capaci e affidabili, non sono altro che un gigante dai piedi d’argilla, potrebbe essere troppo tardi.

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