Per le strade di Belgrado, in queste ore, i giovani serbi stanno tirando su barricate con pneumatici, vecchi elettrodomestici, recinzioni, cassonetti. Qualcuno ha piantato pure le tende vicino alle postazioni per non abbandonare la protesta. Non si arresta l’onda che chiede da mesi le dimissioni del presidente Aleksandar Vucic, accusato di autoritarismo, populismo e corruzione.

Accade nella capitale del paese, a Novi Sad e in altre città in cui si sta diffondendo a macchia d'olio il grande scontento serbo. Scontri tra i manifestanti e forze dell'ordine – che non si erano mai verificati durante le proteste anti-governative che vanno avanti ormai ininterrotte da otto mesi – sono scoppiati sabato scorso a Piazza Slavija a Belgrado.

Era gremita di giovanissimi, giovani e ormai non più giovani. Il bilancio di quella protesta che ha visto la partecipazione di 140mila persone – dove oltre 40 poliziotti e 22 manifestanti sono rimasti feriti – continua a salire dopo i controlli delle forze dell'ordine: ha ormai raggiunto i quasi ottanta arresti, secondo le ultime cifre fornite dal ministero dell'Interno di Belgrado.

Il presidente serbo, in carica dal 2017 dopo un premierato iniziato nel 2014, lo aveva promesso: «L'identificazione di tutti i responsabili è in corso», «ci saranno molti arresti» e «il tempo delle responsabilità sta arrivando». Per Vucic i giovani che protestano sono «terroristi» e con loro «non si negozia».

Maratona di marce

La maratona delle marce in Serbia non è iniziata sabato scorso, ma otto mesi fa, dopo il crollo della pensilina della stazione ferroviaria di Novi Sad in cui sono morte sedici persone, una strage che è diventata simbolo della corruzione governativa. Nonostante nell'esecutivo Vucic ci siano state da allora dimissioni e allontanamenti – un visibile gioco delle poltrone nei palazzi del potere – ai ragazzi non è bastato. Vogliono tutti fuori senza aspettare le prossime elezioni previste per il 2027 e chiedono urne anticipate.

Si aspettano riforme immediate: elettorali, del sistema educativo e del mercato del lavoro. «Le autorità potevano impedire l'escalation», hanno riferito gli universitari che sabato hanno lanciato un ultimatum a Vucic: entro le nove di quello stesso giorno, il presidente avrebbe dovuto fornire una data per il nuovo voto. «Non lascerò la Serbia nelle mani dei peggiori», ha chiosato il presidente, aggiungendo che un giorno abbandonerà il potere, ma «non quando una banda di teppisti lo richiederà».

Adesso la gioventù serba si trova tra incudine e martello: anzi, di martelli, che potrebbero picchiare, ne ha due. A guardare sospettosa la piazza di giovani non c'è solo l'autorità di Belgrado, ma anche Mosca, a cui la Serbia è tradizionalmente e storicamente vicina. Belgrado ha le braccia divaricate, in un abbraccio impossibile che vuole contenere sia l'est che l'ovest. Ha aspirazioni occidentali: vuole entrare in Ue dal 2019, anno in cui ha fatto richiesta d'adesione, ma nel 2022, anno d'inizio della guerra in Ucraina, non si è allineata a Bruxelles quando ha cominciato ad emettere sanzioni contro Mosca. Vucic rimane uno dei migliori alleati di Putin nei Balcani e l'amicizia tra Paesi è forgiata dall'energia russa, fornita dal Cremlino ai serbi a costo agevolato.

Amici russi

Oggi la Serbia è l'ultimo pezzo d’Europa che rischia di trasformarsi in terreno di scontro tra la Federazione russa e l'Unione europea. Lo sa Vucic che qualche giorno fa ha ringraziato «gli amici russi», in particolare il ministro degli Esteri, che ha «compreso perfettamente la situazione». Perché da Mosca, Lavrov ha già intimato all’Ue: non intervenite con un’altra rivoluzione colorata, sul modello che il Cremlino ha già visto in Ucraina e Georgia.

Al richiamo russo si è unita Budapest che ha puntato un altro indice contro Bruxelles: «Sostenete apertamente i tentativi di cambio di regime guidati da forze straniere nei paesi dell'Europa centrale a leadership sovranista«. Bruxelles nega intanto di aver fornito «incoraggiamento di qualsiasi protesta antigovernativa in qualsiasi parte del mondo».

Per le strade serbe, dopo otto mesi, non ci sono più solo gli universitari, ma adulti, padri e madri di famiglia, a volte nonni, che non vogliono tornare a casa e continuano a reclamare quella Serbia giusta che non gli hanno dato nemmeno dopo il 1989. E nemmeno nel 2000, dopo la Bager Revolucija, «la rivoluzione dei Bulldozer», passata alla storia con questo nome dal nome dei veicoli usati per bloccare la capitale nell'ottobre del 2000.

Fu la rivolta che fece capitolare Milosevic, che morirà anni dopo all'Aja. Esattamente venticinque anni dopo, la notizia non è che ci siano proteste in Serbia, ma che non stanno cessando. L'onda si è alzata e nessuno si sta tirando indietro: né Vucic, né il suo governo, né la piazza che li contesta.

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