Decoupling? L’ultimo rapporto della US-China Economic and Security Review Commission sembrerebbe piuttosto indicare un intreccio sempre più stretto tra Wall Street e l’economia cinese. Nelle tre principali piazze azionarie a stelle e strisce (Nasdaq, New York Stock Exchange, Nyse American) risultano attualmente quotate 248 compagnie cinesi, con una capitalizzazione di mercato complessiva di 2.100 miliardi di dollari. E le banche d’affari continuano a sostenere le offerte pubbliche iniziali (Ipo) di aziende e start up di Pechino.

Finora, i provvedimenti bipartisan della politica americana per limitarne l’attivismo non hanno frenato le aziende cinesi: quelle i cui titoli di proprietà sono scambiabili a Wall Street e dintorni sono aumentate (da 217 a 248, rispetto alla precedente rilevazione dell’ottobre 2020), nonostante le procedure di delisting (revoca del permesso di operare in borsa) avviate nei confronti di 17 di loro, tra le quali China Unicom, China Telecom e China Mobile (le tre maggiori telco del paese),Semiconductor Manufacturing International Corporation (semiconduttori), e China National Offshore Oil Corporation (energia).

Con le Ipo dell’ultimo anno, China Inc. ha raccolto negli Stati Uniti 17,5 miliardi di dollari, il quadruplo rispetto ai 12 mesiprecedenti. Ma la capitalizzazione di mercato dei suoi gioielli (cioè il loro valore reale), che un anno fa era raddoppiata, è diminuita (di 100 milioni di dollari), in un periodo in cui sia l’indice S&P 500 che il Dow Jones Industrial Average sono saliti del 23 per cento. Un segnale che lo spettro del delisting impensierisce gli investitori. In cima alla lista pubblicata il 13 maggio scorso dall’agenzia del governo Usa c’è Alibaba, valutata 615 miliardi di dollari, la cui Ipo monstre (21,7 miliardi), nel 2014, fu sostenuta dal gotha della finanza globale: Goldman Sachs, JP Morgan Chase, Morgan Stanley, Citigroup, Credit Suisse, Deutsche Bank.

New entry

Le aziende di stato (Soe) cinesi quotate negli Usa sono solo otto, le prime a sbarcarvi, alla fine degli anni Novanta, inizio Duemila. C’è il settore energia, che nei prossimi anni alimenterà lo sviluppo della Cina e dei paesi lungo la nuova via della Seta: Petro China, China Petroleum & Chemical Corporation, Sinopec e Huaneng Power. Seguono China Southern, con 13,7 miliardi di dollari di capitalizzazione e China Eastern, con una market cap di 11,2 miliardi di dollari, che, assieme ad Air China, formano le big three, le tre maggiori compagnie aeree nel paese che un anno fa ha superato gli Stati Uniti, diventando il primo mercato mondiale per l’aviazione. Infine Aluminium Corporation of China, e China Life Insurance Company, prima in Cina nelle assicurazioni sulla vita.

Tra i maggiori sottoscrittori di queste corporation controllate direttamente dal governo di Pechino troviamo Blackrock, Inc., JP Morgan Chase, Citigroup, Goldman Sachs, Morgan Stanley, Templeton Asset Management, Capital Group, Credit Suisse, Citigroup e Deutsche Bank. Ma, al di là delle Soe, le new entry segnalano che l’interesse di banche e fondi d’investimento si sta concentrando su tre settori in forte espansione dell’economia cinese: tecnologia, finanza e servizi sanitari.

E così, ad esempio, con la sua Ipo del marzo scorso, Tuya (internet delle cose, IoT) ha raccolto 915 milioni di dollari, soprattutto da Morgan Stanley e Bank of America, e quest’ultima – assieme a Goldman Sachs, Ubs e Hsbc – aveva scommesso anche sul gigante shanghaiese dei servizi finanziari online Lufax, che nell’ottobre 2020 mise a segno una Ipo da oltre 2,3 miliardi di dollari. Lufax fu creata nel 2011 da Ping An, il maggiore colosso assicurativo del Paese, emblema degli opachi legami tra il settore privato e il potere politico.

Delisting e regime change?

Nel suo China Coup: The Great Leap to Freedom (University of California Press) Roger Garside immagina che i fallimenti a catena innescati nella Repubblica popolare dal delisting negli Usa di una gruppo di compagnie cinesi con una capitalizzazione di oltre mille miliardi di dollari facciano esplodere nella leadership un conflitto tra liberal e conservatori che sfocia in una congiura di palazzo e nella deposizione di Xi Jinping.

Il libro, appena uscito, dell’ex diplomatico con alle spalle una lunga carriera nell’ambasciata britannica a Pechino, come banchiere e, infine, consulente finanziario, si fonda su un ragionamento semplice: così come in altri campi (tecnologico, militare ecc.), anche nel mercato dei capitali il coltello dalla parte del manico ce l’ha Washington, che può (e, secondo l’autore, deve) bloccare l’ascesa del nemico cinese. Il 18 dicembre scorso, l’ex presidente Trump firmò lo Holding Foreign Companies Accountable Act, il provvedimento bipartisan che concede alle compagnie estere tre anni di tempo per sottoporsi agli stessi controlli previsti per quelle Usa dalla US Securities and Exchange Commission (Sec); le obbliga a dimostrare di non essere di proprietà di o controllate da un governo straniero e a svelare i nomi di eventuali componenti i consigli di amministrazione membri del Partito comunista cinese e se negli statuti societari vi siano norme riconducibili allo statuto del Pcc.

Già il mese precedente Trump aveva varato un ordine esecutivo – in base al quale sono state decretate le prime “espulsioni” – che vieta agli americani di investire nelle compagnie cinesi che abbiano legami con l’Esercito popolare di liberazione. Le corporation cinesi sono davanti a un bivio: rendere pubblici dettagli importanti sulla propria struttura, operazioni, investitori – informazioni che Pechino considera questioni di sicurezza nazionale - o venire estromesse dal più ricco dei mercati dei capitali. La leadership cinese è convinta che il decoupling finanziario avviato da Trump – giudicato «reciprocamente disastroso» - possa procedere con Biden, perché la relazione bilaterale tra Washington e Pechino è entrata in una fase «completamente nuova» e perché il presidente democratico sarebbe troppo impegnato a curare le ferite interne dell’America per ordinare il dietrofront rispetto alla politica anti-Cina degli ultimi cinque anni.

Secondo Pechino la nuova legge «colpirà la fiducia degli investitori internazionali nei mercati dei capitali Usa indebolendone lo status globale e danneggerà gli interessi statunitensi». Intanto però le compagnie cinesi si stanno preparando il paracadute, quotandosi anche ad Hong Kong. Assieme alla presenza tangibile dei brand cinesi in tutto il mondo, lo sbarco nelle borse Usa in coincidenza con l’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale per il commercio (Wto) nel 2001 ha rappresentato il successo della strategia “Diventare globali” che il Parito, fin dalla segreteria di Jiang Zemin (1989-2002), ha perseguito per le compagnie nazionali, e che Xi Jinping ha rilanciato con la nuova via della Seta.

Ora però, proprio come nel caso dei microprocessori Usa, “componenti chiave” per la sua manifattura, anche per il mercato dei capitali Pechino è costretta a prepararsi al worst-case scenario, ovvero all’espulsione dalle piazze azionarie degli Stati Uniti che, tra l’altro, comporterebbe un danno reputazionale con relativo brusco deprezzamento delle azioni del Dragone. Un documento della China Securities Regulatory Commission (Csrc) pubblicato all’inizio del mese afferma che, da qui al 2035, la Cina intensificherà la riforma e l’apertura del suo mercato dei capitali, migliorando l’offerta dei servizi finanziari internazionali, del sistema legale e di quello di controllo, per proteggere gli interessi degli investitori e, allo stesso tempo, difendersi contro rischi finanziari sistemici.

Ma approntare una piazza azionaria globale o preparare una Ipo, non è come tirare su un grattacielo, operazione che tecnici e lavoratori cinesi completano in pochi mesi. Tranne Hong Kong (sconvolta da una profonda crisi politica), le altre borse cinesi (Shanghai e Shenzhen) hanno al momento uno status e un’attrattiva per gli investitori internazionali enormemente inferiore rispetto a quelle americane. Non è un caso se, in attesa dei prossimi delisting, negli ultimi giorni la app Soulgate, la piattaforma di podcast Ximalaya e quella di bike-sharing Hello si siano messe in fila per presentare la domanda di Ipo alla Sec.

© Riproduzione riservata