Nel discorso di domenica sera il leader del partito Yamina (destra) Naftali Bennett ha dichiarato che quella che stava facendo era «la scelta più difficile della sua vita». Probabilmente lo pensava davvero: la decisione, sembrerebbe definitiva, di appoggiare una coalizione di partiti che vogliono espellere il primo ministro Benjamin Netanyahu dalla residenza gerosolimitana di Balfour Street dopo 12 anni consecutivi al potere, arriva dopo una carriera politica nella quale in “Bibi” ha avuto il principale mentore, modello e fautore.

È ancora presto per dichiarare ufficialmente Bennett il nuovo primo ministro di Israele. Ma non c’è dubbio che dal 2009, da quando Netanyahu è stato ininterrottamente leader del paese, non si è andati mai così vicini a una sua uscita di scena. Nel discorso di ieri Bennett ha chiamato Yair Lapid, il numero uno del partito più grande dell’opposizione “Yesh Atid” (17 seggi) «il mio amico», laddove in precedenti campagne elettorali non esitava a bollarlo “sinistroide” come Netanyahu.

La coalizione che si appresta a mettere insieme, salvo nuovi colpi di scena nei prossimi giorni, sarà fragile ed eterogenea. Insieme al gruppo di ex alleati delusi da Netanyahu – oltre a Bennett anche Avigdor Lieberman, suo braccio destro per dieci anni, e il dissidente interno al Likud Gideon Saar, che aveva già provato a scalzarlo nelle primarie del Likud nel 2019, ci saranno tutti i partiti della sinistra e ci vorrà anche il sostegno esterno di una lista di una minoranza araba (Bennett aveva escluso di poterlo accettare nemmeno tre settimane fa, durante la guerra di Gaza).

L’ascesa di Bennett

Nato da genitori americani nel nord d’Israele, nella cittadina portuale di Haifa, Bennett come Netanyahu si è formato a cavallo fra gli USA e lo stato ebraico. Al punto che fra loro spesso e volentieri preferiscono conversare in inglese. Può poi vantare un prestigioso background militare – un elemento importante nella politica israeliana, che per esempio manca a Yair Lapid – visto che nell’esercito ha fatto parte dell’unità “Sayeret Matkal”, la più blasonata fra quelle speciali. Qualcuno sostiene che abbia cagionato indirettamente, con gli spostamenti della propria unità, una delle peggiori stragi di civili fatte dall’esercito israeliano in Libano, quella di Qana il 18 Aprile 1996 (102 morti in una struttura delle Nazioni Uniti). Lui respinge le accuse al mittente.

Dopo l’esperienza nelle forze speciali, Bennett ha studiato business all’università ebraica di Gerusalemme per poi lanciare a New York la start-up di software – venduta al colosso di sicurezza informatica Rsa Security nel 2005 - che lo avrebbe reso milionario. Rientrato in Israele, dove l’ultimo primo ministro prima di Netanyahu, Ehud Olmert, era in difficoltà a causa dei postumi della seconda guerra del Libano e del coinvolgimento in alcuni casi di corruzione, cominciò a lavorare in politica con Netanyahu. La sua devozione per Netanyahu lo indusse a chiamare il figlio primogenito Yoni, come Yoni Netanyahu il fratello maggiore di Bibi morto in una rocambolesca operazione di salvataggio in Uganda nel 1976 e diventato figura quasi mitologica in Israele.

Si capisce allora perché quella di scaricare Netanyahu sia stata per lui «la scelta più difficile» e non si stentava a credergli quando diceva che, se il premier avesse avuto modo di formare un nuovo esecutivo, lui probabilmente lo avrebbe ancora una volta appoggiato. Negli anni la fedeltà di Bennett verso Netanyahu è diventata una barzelletta nei principali programmi di satira politica in Israele, come “Heretz Nehederet”. Aveva resistito persino quando è emerso, nel corso dei processi di corruzione di Netanyahu, che il premier aveva usato la sua influenza indebita sui media e in particolare sul giornale online Walla! perché gettasse fango sull’alleato e sulla sua famiglia.

Nel discorso di ieri invece Bennett è stato categorico, quasi definitivo. «Le elezioni hanno dimostrato che non c’è governo di destra possibile sotto Netanyahu. Le alternative sono governo di unità nazionale o quinte elezioni», ha detto, promettendo di appoggiare il cosiddetto esecutivo del cambiamento. «Non chiederemo a nessuno di rinunciare alla propria ideologia, ma ognuno dovrà rinviare la realizzazione di qualche sogno. Ci concentreremo su cosa può essere fatto, non su ciò che è impossibile», ha continuato. E alludendo a Netanyahu: «Siamo di fronte a una macchina ben oliata che diffonde bugie per spaventare il pubblico». Mezz’ora dopo Netanyahu ha ripetuto, ancora una volta, che il nuovo governo non sarebbe in grado di gestire la minaccia di Gaza e quella iraniana.

Dopo aver portato il paese alle urne per quattro volte dal 2019, senza mettere insieme un governo, a parte quello “di emergenza” per il Covid-19 che ha avuto vita breve, il leader più longevo della storia di Israele entro mercoledì potrebbe essere costretto a farsi da parte. Bennett governerebbe da primo ministro per due anni con soli 7 seggi in parlamento, una situazione degna delle alchimie di coalizione israeliane. Nella prima consultazione elettorale del 2019 il leader di Yamina non era neppure riuscito ad entrare in parlamento, il suo partito rimasto sotto la soglia di sbarramento.

Dal punto di vista del conflitto con i palestinesi non bisogna però aspettarsi dei cambi di marcia. Bennett ha posizioni ancora più di destra di Netanyahu sugli insediamenti in Cisgiordania e sui rapporti coi vicini arabi. Nel suo discorso ha detto chiaramente che non ci saranno nuovi ritiri dai territori (come quello dalla striscia di Gaza nel 2005) e ha sostenuto che, a differenza di quanto sostenuto da Netanyahu, il nuovo governo sarà ancora più di destra dei precedenti.

Proprio Bennett, nell’estate 2020, era il politico più determinato a spingere per l’annessione di alcuni territori della West Bank, che è sotto occupazione militare israeliana dal 1967. Portare la sovranità israeliana sui territori della cosiddetta Area C – che rappresenta il 60 per cento della regione ed è sotto controllo civile e militare israeliano secondo gli accordi di Oslo - è una sua battaglia di lungo corso. Siccome i suoi piani non prevedevano di concedere ai palestinesi della zona la cittadinanza israeliana dopo l’annessione, in passato i suoi detrattori lo hanno accusato di voler applicare “politiche di apartheid” nei territori occupati.

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