La scelta di Berlino di riarmarsi è un passaggio cruciale di una riflessione in atto da tempo in Germania. I leader tedeschi, dal secondo dopoguerra in avanti, hanno sempre evitato riferimenti alla sfera militare.

Sono addirittura passate agli annali le dimissioni di un presidente federale, Horst Koehler, aspramente criticato per aver detto in pubblico che gli interessi economici tedeschi giustificavano interventi militari fuori porta. Forti cautele in questo campo si trovano addirittura agli esordi della Germania unita, quella che Bismarck saldò durch Blut und Eisen, con il sangue e l’acciaio.

È piuttosto ovvio, quindi, che il riarmo non possa essere derubricato a riflesso inevitabile di fronte all’aggressività russa. Con Angela Merkel al potere, avremmo avuto la stessa determinazione? È davvero difficile da dirsi. L’uscita di scena di Merkel non risale che a pochi mesi fa, ma sembra davvero passata una vita.

È ormai archiviato il cauto mercantilismo della sua èra, quello che postulava la “gestione” delle frizioni internazionali anziché la loro “soluzione”. Tuttavia Merkel era a sua volta conseguenza, non causa di quella postura istituzionale. Anche la svolta tedesca di questi giorni riflette le nuove tendenze nei campi di forza globali.

Il risveglio euroatlantico

A occupare oggi il centro della scena è soprattutto Annalena Baerbock, la giovane e brillante ministra degli Esteri tedesca, già candidata dei verdi al cancellierato. Baerbock è un interessante impasto di idealismo e pragmatismo realista, che gestisce più registri stilistici ed è a suo agio tanto nel tam-tam serrato dei talk show televisivi quanto nelle liturgie bizantine dei vertici internazionali.

È inevitabile che i media indugino anche sulla figura del cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz. Tuttavia oggi è Baerbock a incarnare la “svolta” di una Germania che sceglie di non tenere geopoliticamente il piede in due staffe (occidente ed Eurasia), ma traina il risveglio euroatlantico a cui stiamo assistendo da qualche settimana. Ecco perché.

Punto primo. La Germania è una superpotenza economica che subisce un duplice condizionamento da oriente. Dipende infatti dalla Russia per l’approvvigionamento di energia, e dalla Cina per il proprio export. Spesso, in passato, questo duplice ricatto eurasiatico alla Germania si è riproposto, venendo amplificato, nel condominio istituzionale dell’Unione europea.

Le politiche europee più filocinesi sono per esempio da ascrivere ad Angela Merkel, compreso l’accordo Europa-Cina (Cai) ostinatamente cercato da Merkel durante la presidenza di turno tedesca dell’Unione, ma bocciato senza appello dal parlamento europeo. Analogamente, in passato, anche le continue rinunce di Bruxelles a mostrarsi intransigente con Putin erano da attribuire alla posizione tedesca. La presa di posizione di Berlino di questi giorni appare invece risoluta.

Altrettanto esplicita, poi, è stata l’ammissione dei vertici tedeschi secondo cui i rapporti economici tra Russia e Germania non hanno minimamente “addolcito” la prima. È la definitiva disillusione del Wandeln durch Handeln – il cambiamento indotto dall’osmosi commerciale – cioè della formula ripetuta incessantemente da feluche e imprese tedesche per molti anni.  

Punto secondo. L’ingresso di verdi e liberali ha senza dubbio iniettato una robusta dose di questione morale nella politica tedesca. Si tratta di un importante elemento di discontinuità. Finora, infatti, la Germania si era voluta potenza geoeconomica, curva cioè sul proprio tornaconto affaristico e cinicamente disinteressata alla natura autoritaria dei propri partner eurasiatici e alle loro violazioni di libertà civili e diritti umani.

Oggi la musica è decisamente cambiata. La volontà di non chiudere più un occhio (o due) sulle atrocità di Mosca e Pechino emerge dall’accordo di coalizione, vale a dire il programma comune della maggioranza di governo a Berlino. Frutto di numerosi giorni di negoziato, contiene diversi paragrafi che affrontano senza ambigui esercizi di stile i nodi di Cina e Russia.

Non è difficile capire che in questo ambito l’impostazione di Angela Merkel risulta completamente rovesciata. Intervenendo nella primavera del 2020 presso la Fondazione Adenauer, lo strumento di diplomazia parallela dei cristiano democratici tedeschi, Merkel aveva affrontato il delicato tema dei rapporti con la Cina, e affermò che Pechino si era ripresa un posto in prima fila nelle vicende mondiali. Merkel lisciò così il pelo alla retorica cinese del “destino manifesto”. Pur riconoscendo che tra Germania e Cina era già buio pesto su democrazia, certezza del diritto e diritti umani, Merkel concluse che tutto ciò non bastasse per interrompere i rapporti con la Cina.

La globalizzazione balcanizzata

Punto terzo. La rimoralizzazione della politica tedesca procede di pari passo con l’accettazione di un diverso paradigma di globalizzazione da parte delle sue élites economiche e politiche. Il mondo non è più piatto, non è più l’agorà unica in cui scambiare con chiunque e ovunque.

Si fa di nuovo strada la lezione di Kenichi Ohmae, il visionario stratega giapponese di McKinsey che, pur accettando una marginalizzazione degli stati nazione, ipotizzava una globalizzazione “ad arcipelago”, in cui scambi e investimenti sono particolarmente intensi all’interno di isole (blocchi regionali), ma tenui tra le isole stesse.

Punto quarto. Berlino non è ingenua e sa da tempo che la Cina punta a una regionalizzazione della propria economia, mediante la creazione di un megablocco eurasiatico di capitalismo autoritario, parallelo e alternativo a quello occidentale di capitalismo democratico.

Mette anche in conto che a un certo punto per le imprese tedesche non sarà più possibile fare affari in entrambi i blocchi, e che la torsione causata dall’invasione russa dell’Ucraina avvicina questo momento. Economisti e accademici tedeschi hanno oggi un forte interesse per la Dual circulation cinese, un colossale piano di Pechino per affrancarsi il prima possibile dall’abbraccio industriale e tecnologico con l’occidente.

I tedeschi mettono insomma in conto che il pivot to China dovrà cessare, perché è in prima battuta proprio la Cina a voler porre fine alla sua dipendenza economica dall’occidente. Senza contare che il disincanto tedesco verso la Cina risale almeno al 2015, l’anno in cui la Cina rese pubblico il suo rapporto Made in China 2025.

Nel documento gli strateghi cinesi rivelarono di voler occupare posizioni molto più elevate nelle catene globali del valore, indicando in dettaglio i settori da presidiare e le quote di mercato che le imprese cinesi avrebbero dovuto conquistare.

Punto quinto. All’ambizione cinese di conquistare l’autarchia economica con la Dual circulation strategy fa da contrappunto il Recovery plan europeo. Con la transizione digitale e ambientale, si opera un vasto reset economico da cui la Cina deve essere tagliata fuori – voluto dagli Stati Uniti.

Ovvero i fondi europei non devono andare direttamente a imprese cinesi, ma vengono chiamati in causa anche altri soggetti, tra cui molti cinesi. Si consideri il caso di una municipalizzata italiana – come Atac per esempio – interessata a rinnovare il parco veicoli adibiti al trasporto pubblico usando il Recovery fund.

Come dovrebbe comportarsi nel caso delle grandi case tedesche che hanno grossi investitori cinesi nel proprio azionariato (per esempio Mercedes), o che hanno parti importanti della propria produzione proprio in Cina (Volkswagen, Bmw) e addirittura nella regione dello Xinjiang, teatro di durissime repressioni degli uiguri?.

Punto sesto. Il dibattito sui media tedeschi sulla questione cinese è molto profondo e meritevole di attenzione. I media sono la grande scatola nera dello spazio tedescofono. Ne registrano gli umori, ne scandagliano la coscienza tormentata e ne ratificano le svolte storiche.

Descrivono vividamente la tensione di un grande paese, la Germania, che si trova a fare i conti con molte sfide simultanee: l’equilibrismo tra l’atlantismo e il tradizionale riflesso eurasista, la coesione europea e il ricatto cinese.

Ma in questo momento a fare le domande più scomode (in tedesco), più ancora della stampa tedesca, sono gli svizzeri. A ragionare da oltre due settimane di sanzioni alla Cina è la Neue Zuercher Zeitung, l’autorevole quotidiano di Zurigo. E di timori reverenziali lì non vi è la benché minima traccia.

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