Lo scorso 16 aprile, tra le lettere alla redazione pubblicate sul New York Times, ne spiccava una in difesa dell’impatto di Amazon sull’economia americana. La lettera era un attacco diretto al libro Fulfillment del giornalista investigativo Alec MacGillis che racconta la disuguaglianza creata dal sistema economico americano – e in particolare dalle strategie di espansione di Amazon – attraverso storie di persone che in modi diversi ne sono stati colpite.

Si leggeva: «Alec MacGillis segue una narrazione carica di pregiudizi e falsa sull’impatto di Amazon sull’economia americana, a discapito dei fatti».  L’autore della lettera era Jay Carney, a capo dell’ufficio per le politiche e le relazioni pubbliche di Amazon. Un nome che nell’archivio online del giornale appare più di 1.600 volte: prima di essere assunto dal gigante dell’e-commerce nel 2015, Carney era stato portavoce del presidente Barack Obama. 

Al termine del secondo mandato di Obama, il numero di persone passate dalla Casa Bianca al mondo della Big Tech è stato così cospicuo da aver definito un trend. Nella Silicon Valley si parlava degli “Obama alumni” in riferimento a coloro che si erano formati nella sua amministrazione e che poi erano stati assunti da aziende come Amazon, Facebook, Google e Uber, interessate a portare a bordo degli insider della politica.

A quell’epoca l’osmosi tra i due mondi, quello della politica di Washington e quello della tecnologia che genera milioni di dollari, poteva apparire naturale. Obama è stato il primo “presidente digitale”, sostenitore della cultura delle start up e della Silicon Valley, fiducioso nella tecnologia come strumento per il miglioramento della società.

D’altronde ha governato in un momento storico in cui ai social media si era dato il merito della Primavera araba, in cui Facebook era stato definito uno strumento di democrazia. La presidenza di Donald Trump – la sua stessa elezione – hanno dimostrato che si trattava di un abbaglio e che l’uso dei social media può produrre risultati decisamente più controversi.

L’assalto a Capitol Hill dello scorso 6 gennaio non sarebbe stato possibile se cospirazionisti ed estremisti non avessero potuto agire indisturbati sulle piattaforme social per diffondere notizie false e mobilitare seguaci, i followers appunto.

Stessa cosa vale sul fronte economico: sotto l’amministrazione Obama le autorità antitrust non avevano fermato una sola delle oltre 400 acquisizioni messe in atto dalle cinque aziende più forti nel settore tech, di fatto favorendo la creazione di monopoli che ora diversi politici, anche democratici, considerano una grave minaccia per interi settori dell’economia. 

Oggi l’evoluzione della carriera di Jay Carney come minimo fa aggrottare la fronte. Così come quella di altre decine di persone che erano con lui a Washington. Tra questi David Plouffe, a capo della prima campagna per l’elezione di Obama, poi assunto ai vertici di Uber e infine approdato all’organizzazione filantropica del fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg.

L’attuale presidente Joe Biden, che di Obama è stato vice e che per molti aspetti rappresenta una continuità con il passato, sul rapporto tra governo federale e Big Tech sta cambiando drasticamente rotta.

La nomina di Lina Khan alla Federal Trade Commission e di Tim Wu al National Economic Council, lancia un forte segnale. Khan e Wu, entrambi professori alla Law School della Columbia University, sono infatti tra le voci più autorevoli in materia di antitrust e net neutrality.

Con questa presa di distanza dalla Silicon Valley, Biden può anche sperare di riconnettersi all’America dei blue collar e dei piccoli imprenditori che – come ha dimostrato il successo di Trump –  ha sempre più difficoltà a riconoscersi nel Partito demcratico. 

Per capire l’inversione di rotta, vediamo più da vicino le storie più emblematiche delle due posizioni.

Jay Carney

Nella piramide di potere dell’impero di Amazon, Jay Carney sta nella fascia appena sotto il vertice. È  uno dei membri del S-team, la squadra di “senior leadership” che lavora direttamente con l’amministratore delegato Jeff Bezos e che opera in modo estremamente riservato.

Degli oltre venti membri dell’S-Team, Carney è uno dei pochi a lavorare solo saltuariamente dagli uffici di Seattle, dove ha sede il quartier generale di Amazon. È infatti rimasto a Washington, dove in passato ha lavorato alla Casa Bianca come portavoce di Obama.

Prima di entrare nel vivo della politica, Carney l’ha raccontata e analizzata per oltre vent’anni. Dopo aver conseguito una laurea a Yale, nel 1987 ha iniziato la sua carriera da giornalista politico al Miami Herald per poi entrare a far parte della redazione del Time. 

Per Amazon l’assunzione di Carney ha segnato una svolta, sia a livello quantitativo che qualitativo. La squadra addetta alla comunicazione e pubbliche relazioni è passata da poche decine di persone a più di 800 dipendenti in giro per il mondo.

Ma a cambiare è stata soprattutto l’intensità delle pressioni sulla politica. Nel 2014, prima di assumere Carney, Amazon aveva speso circa 4 milioni di dollari in attività di lobby. Nel 2019 ha investito quattro volte tanto, più di 16 milioni.

Secondo un articolo di Cnbc che ripercorre la carriera di Carney, sotto la sua guida Amazon avrebbe adottato una strategia internamente nota come “watering the flowers”, annaffiare i fiori, intesa a coltivare e far crescere un rigoglioso “giardino” di esponenti politici a vario livello favorevoli ad Amazon. 

David Plouffe

Tra il 2011 e il 2013, mentre Carney si faceva portavoce delle idee di Obama, chi aiutava il presidente a formularle era David Plouffe, uno dei suoi più stretti consiglieri personali.

Prima di sostituire David Axelrod in questo ruolo alla Casa Bianca, Plouffe aveva già conquistato tutta la fiducia di Obama e della sua amministrazione guidando la vittoriosa campagna per le presidenziali del 2008, con un massiccio utilizzo dei mezzi digitali e la cosiddetta “50 states strategy”, puntando a costruire consenso in tutti gli stati, anche quelli che si danno per persi in partenza.

Considerato ancora oggi una delle voci più autorevoli in materia di strategia politica, quando l’era di Obama stava tramontando Plouffe è passato al mondo della tecnologia. 

Il suo esordio è stato con Uber, che lo ha assunto come vicepresidente della strategia politica, per poi assegnargli un ruolo meno operativo e più di consulenza. In quel momento l’azienda doveva affrontare forti critiche e pressioni da amministrazioni cittadine riguardo le condizioni di lavoro degli autisti, la raccolta dei dati sui clienti e la concorrenza con le più tradizionali categorie di taxisti.

Il complesso lavoro di difesa degli interessi di Uber è costato a Plouffe anche una multa da 90mila dollari per non essersi registrato come lobbista quando, nel novembre 2015, aveva scritto una email all’indirizzo personale dell’allora sindaco di Chicago, Rahm Emanuel, chiedendo senza tanti giri di parole che venisse autorizzata l’attività di Uber all’aeroporto cittadino entro le vacanze di Thanksgiving. 

Dal 2017 Plouffe è passato a Facebook, o meglio ai vertici della Chan Zuckerberg Initiative, l’organizzazione che Mark Zuckerberg e sua moglie Priscilla Chan hanno fondato per attività sociali, ma che straborda dai confini del non profit portando avanti campagne di lobbying e finanziamenti a società for profit.

L’ex consigliere di Obama ha comunque continuato ad impegnarsi in modo ancora più diretto in politica, guidando una importante campagna di comunicazione digitale contro Trump e dispensando consigli a Biden. 

Lina Khan

A soli 32 anni Lina Khan è già considerata una delle voci più critiche e autorevoli contro il monopolio delle aziende della Big Tech. Al punto da mettere d’accordo anche democratici e repubblicani al Congresso: Biden l’ha nominata per entrare a far parte della Federal Trade Commission, l’agenzia federale che tutela la libera concorrenza e i diritti dei consumatori, e la sua conferma sta avanzando in Senato senza intoppi a parte qualche prevedibile commento sulla sua presunta inesperienza dovuta all’età. 

Nata a Londra da genitori di origine pakistana, Khan è attualmente professoressa alla Law School di Columbia University. Il suo nome è iniziato a circolare a Washington quando aveva appena 29 anni ed era una sconosciuta studente di legge a Yale.

A catapultarla sotto i riflettori è stato un suo articolo accademico, Amazon’s Antitrust Paradox, nel quale argomentava le ragioni per cui l’attività di Amazon ucciderebbe la competizione, di fatto rendendo le piccole attività economiche dipendenti dal loro più grande nemico.

Fino a quel momento il fenomeno di Amazon non era stato preso seriamente in considerazione dalle autorità antitrust, che misuravano più che altro la soddisfazione del consumatore.

Tuttavia l’attività del gigante dell’e-commerce è ormai entrata così a fondo nel tessuto economico e sociale americano, che anche lo stesso consumatore, in un modo o nell’altro, è destinato a subirne le conseguenze. 

Le teorie di Khan – che oggi trovano più che mai eco –  toccarono un nervo scoperto in un momento in cui gli Stati Uniti stavano iniziando a mettere in dubbio il potere delle aziende della Big Tech. Dopo pochi mesi dalla pubblicazione dell’articolo, Khan è stata chiamata come consulente dalla Federal Trade Commission di cui presto dovrebbe far parte. 

Tim Wu

Quando si tratta di critica al monopolio della grandi aziende tecnologiche, tra i nomi più rispettati c’è quello di Tim Wu. È stato infatti il primo ad articolare il concetto di “net neutrality” in uno studio del 2003 in cui difendeva che i diversi provider delle rete Internet, ovvero le grandi società di telecomunicazione, dovessero garantire accesso equo a tutti i siti, contenuti e piattaforme. 

Già professore alla Law School della Columbia, Wu è stato nominato da Biden come assistente al presidente del National Economic Council. Nel suo nuovo ruolo si occuperà in particolare di politiche per la tecnologia e la competizione.

Come spiega nel suo libro The Curse of Bigness: Antitrust in the New Gilded Age (2018), Wu ritiene che gli Stati Uniti si trovino in una nuova Gilded Age, letteralmente epoca laminata d’oro, ovvero un momento in cui la patina dorata costituita dalla rapida crescita di certi settori nasconde e alimenta una profonda ineguaglianza sociale ed economica. 

A differenza di Khan, che è balzata direttamente dalle biblioteche universitarie alle stanze del potere di Washington, Wu non è nuovo al mondo della politica.

Nel 2008 è stato consigliere per la tecnologia nella campagna per l'elezione di Obama guidata da Plouffe e successivamente è stato anche consulente alla Federal Trade Commission.

Nel 2009 si era anche candidato per un ruolo politico più operativo, quello di vicegovernatore della stato di New York. Durante la corsa per quel ruolo, poi persa, Wu parlò anche delle sue origini ed in particolare del padre, un immunologo taiwanese. Wu scoprì che era tra i membri del movimento per l’indipendenza di Taiwan, per il quale continuò ad essere attivo anche dal continente americano. 

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